15 Kirghizistan


20 Agosto 2009

KARAKUL – OSH

Al risveglio Vanni è in forma splendida, così tanto da voler guidare Asia, quindi dopo un’ultima occhiata al bellissimo lago ed alle montagne che circondano la valle, siamo pronti per raggiungere il passo Kyzyl – Art a quota 4282 metri e con esso il confine kirghizo dove un gruppetto di militari frustrati e corrotti si accaniscono, dopo aver aperto tutti i bagagli, sui due samovar di Vanni a scopo di estorsione. Uno di loro conduce il gioco…inizia a dire che sono antichi e che è un problema farli uscire dal Tagikistan….rispondiamo mostrando la ricevuta di acquisto uzbeka ma non c’è nulla da fare, il militare dice che dobbiamo pagare una tassa e tornare a Murgab per ottenere un certificato. Per sbrigarci ad uscire dalla ragnatela che il militare corrotto ha tessuto attorno ai nostri bagagli lasciamo i due vecchi samovar a terra e ripartiamo lungo la strada che si fa improvvisamente molle di fango e piena di buche….siamo entrati in Kirghizistan! Ancora gruppi di lemuri sui bordi della strada e paesaggi incantevoli sempre mutevoli per colori e forme. Qui sul Pamir la natura sembra aver espresso tutta la sua fantasia…..alternanze di rocce nere e rosse, pendii nelle tonalità dei gialli e nessun tipo di vegetazione se non i ciuffetti emisferici del vegetale legnoso usato dai locali come combustibile. Ormai alle spalle, le alte catene del Pamir hanno le cime spruzzate di neve fresca, caduta di recente dalle nuvole che vediamo lontane. Fuori la temperatura è estremamente bassa….sarà forse per questo che da tre giorni non ci svestiamo nemmeno per dormire…figuriamoci per lavarci con l’acqua gelida attinta da un secchio! La cosa più scomoda erano le borchie dei jeans che al mattino mi trovavo stampate nella carne dolorante. Stiamo scendendo dal tetto del mondo felici di averne viste le magiche vallate, i laghi turchesi e le cime altissime…e di aver conosciuto la gente semplice e povera che vi abita, non si sa bene come e perché. Scendiamo ancora valicando montagne sempre più basse fino a raggiungere la cittadina di Osh a quota 900 metri. Arriviamo nel tardo pomeriggio, giusto in tempo per verificare che il vecchio hotel Osh è troppo scassato per poter essere opzionato. Ci salva un giovane tassista al quale riusciamo a far capire che vorremmo raggiungere il miglior hotel della città e che ci accompagna al Pekin, decisamente pulito e con due lettoni duri ma che riescono comunque a sembrarci comodi. Ancora in compagnia di Nicola il taxista, andiamo a cambiare i somoni tagiki in moneta locale e successivamente a cena in un bel localino con musica e pista da ballo. Il nome proprio non lo ricordiamo né forse siamo riusciti a decifrarlo dato che qui tutto è scritto in caratteri cirillici. Mangiamo bene e l’atmosfera piacevole ci convince a fare due salti in pista, tutti e tre appassionatamente…..già perché Nicola si è auto invitato a cena forte del fatto di aver procurato a Vanni un cambio favorevole per i somoni che erano rimasti. Non parla inglese ma sembra capire qualcosa…oppure semplicemente bleffa nel tentativo di spillarci quanti più soldi possibile. Bella serata.

21 Agosto 2009

OSH – BISHKEK

Che bella dormita! Partiamo quasi subito seguendo un taxi che ci porta fuori città sulla strada per Ozgon. La M41 che abbiamo seguito fino ad Osh attraverso il Pamir entra in una lingua di territorio Uzbeko e non avendo più visti disponibili dobbiamo deviare di un centinaio di chilometri percorrendo una strada alternativa tutta in territorio kirghizo. Eccoci di nuovo ad attraversare la valle Ferghana, un piccolo ma fertile fazzoletto di terra assegnato al Kirghizistan, ricco di vegetazione spontanea e di campi coltivati, poi il paesaggio si sussegue sempre mutevole fra le catene montuose che si sviluppano verso Nord per poi concludersi nella piatta e lontana steppa kazaka. Sono le catene del Tien Shan che per quanto meno alte del Pamir hanno pur sempre cime che svettano oltre i 4000 metri. Popolate dagli allevatori nomadi kirghizi che ne sfruttano le vallate erbose, sono punteggiate di tradizionali yurte che sembrano essere l’unica tipologia abitativa della regione oltre ai meno interessanti carrozzoni da circo abitati anch’essi dai nomadi, certo con meno poesia. Talvolta la densità delle yurte è così alta da creare veri e propri centri abitati temporanei….vendono bottiglie di latte e formaggi accatastati su mensoline di legno ai bordi della strada. Le mandrie invadono talvolta anche la comoda strada che collega il Sud del paese alla capitale….sono gruppi di cavalli, mucche e pecore che vediamo sparse sui prati verdissimi delle ampie vallate nelle quali entriamo tra una catena montuosa e l’altra. Poi la sorpresa di un lago artificiale così azzurro da far male agli occhi sotto il cielo limpido per l’aria rarefatta e pulita. Continuiamo così per ore, viaggiando sulla comoda strada piuttosto trafficata….la solitudine del Pamir è ormai solo un ricordo, prerogativa di chi amante dei paesaggi selvaggi ed armato di una buona attitudine all’avventura, ha voluto avventurarsi tra le montagne magnifiche e desolate…..magari in bicicletta. Qualche ciclista è anche qui….sono piccoli gruppi di giovani europei dotati di una grande resistenza fisica e dell’amore per il senso di libertà che questi luoghi danno. Valichiamo due catene che ci spingono ancora altissimi a 3200 e 3500 metri, ma la strada è fin da Osh tutto un saliscendi tra paesaggi senza alberi e montagne che sembrano ricoperte di velluto verde o nelle tonalità delle terre…..infine raggiungiamo la capitale Bishkek, nuova ed anonima, un premio di consolazione piuttosto deludente dopo le oltre dieci ore di viaggio. Ne vediamo i giochi d’acqua e le luci colorate mentre raggiungiamo l’hotel Hyatt, bello e confortevole dopo giorni di sistemazioni spartane. Più costoso di quello di Dushambé e più folcloristico, ha suzani e tappeti appesi un pò ovunque che gli conferiscono una tipicità del tutto apprezzabile. Non usciamo nemmeno per la cena che consumiamo al ristorante del piano terra….con ottime pietanze e dolci degni di una pasticceria francese….come non parlare della fantastica torta di lamponi …forse quegli stessi che i nomadi kirghizi vendevano a secchi sulle montagne. Seduti attorno al tavolo ben apparecchiato godiamo del relax che sempre precede la fine di un viaggio, questa volta impegnativo per una serie di motivi. Primo fra tutti il problema della comunicazione con questi popoli che parlano lingue a noi del tutto sconosciute e che quasi sempre non conoscono nemmeno una lingua “internazionale”…in secondo luogo la sgradevole sensazione di sentirsi in balia di ufficiali di polizia corrotti o comunque il dover sottostare ad assurde modalità al limite del rispetto dei diritti civili, per esempio in alcune delle frontiere attraversate…..e poi la burocrazia legata alle assurde registrazioni mirate al controllo sistematico degli individui. Il regime è ancora troppo presente in questi paesi ex sovietici che esprimono la loro lunga mano attraverso il corpo di polizia e quello militare che ostentano atteggiamenti intimidatori nei confronti di chi suo malgrado vi si imbatte. Quasi a contrastare la durezza del regime è l’estrema affabilità della gente comune spesso alla ricerca di un contatto umano, animata dal desiderio di distensione….peccato che fosse proprio Celentano la parola d’ordine in questi casi !


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22 Agosto 2009

BISHKEK – ALMATY

Lasciamo il Kirghizistan in tutta fretta con la certezza che torneremo l’anno prossimo per vederne il suo pezzo forte…..il bellissimo lago Isik-Kol che circondato dalle montagne occupa la parte orientale del suo piccolissimo territorio. Attraversiamo la frontiera senza particolari problemi se non il permesso di transito per Asia che sembra scadere il 31 agosto anziché fra sei mesi come quando entrammo in Kazakistan la prima volta…..ancora una dimostrazione di come l’incapacità di comunicare con questa gente possa essere estremamente penalizzante. Quasi a compensare l’inconveniente attraversiamo la frontiera schivando la perquisizione che ha invece intrappolato i passeggeri che ci precedevano con tanto di svuotamento completo dell’auto e controllo con cani antidroga….in fondo queste sono le direttrici attraverso le quali si spostano le ingenti quantità di oppio afghano e l’accanimento dei controlli è del tutto giustificato. Scivoliamo oltre l’ultimo passo del quale quasi non ci accorgiamo per via dei suoi 1233 metri di quota spingendoci poi verso la steppa piatta e solitaria. Dopo aver attraversato qualche anonimo paesino raggiungiamo Almaty, la città più vivace ed elegante di questa vasta nazione dell’Asia centrale …. e ci perdiamo alla ricerca del nostro hotel preferito. Estremamente estesa e senza punti di riferimento se non la catena di montagne alle sue spalle, ne percorriamo i viali alberati tutti uguali alla ricerca del nome di una strada o di un introvabile taxi. Girovagando finiamo con l’andare molto fuori strada…ce ne rendiamo conto quando finalmente incontriamo un vigile urbano cui chiedere dove si trovi la piazza principale e che ci indica la direzione da seguire. A questo punto siamo abbastanza in centro da trovare un taxi da seguire e raggiungiamo in breve lo Hyatt dove Vanni spunta l’ottimo prezzo di 100 € per la camera. Siamo a posto! Ora non resta che organizzare la sosta di Asia che dovrà rimanere qui al sicuro per almeno un anno, visitare la città ed acquistare i biglietti aerei per il nostro rientro a casa. Dopo un’oretta siamo già fuori per una passeggiata nell’aria tiepida di questa giornata di fine agosto. Finiti i tempi dei 40° all’ombra, questa giornata di fine estate ci regala 28 piacevolissimi gradi. L’hotel è leggermente defilato rispetto al centro, ma circondato da viali alberati che percorriamo fino a raggiungere la cattedrale di San Nicola….colorata di verde acceso ed immersa in un boschetto, ha le cupole a cipolla tipiche dell’architettura zarista, rivestite di grandi squame dorate. Interamente realizzata in legno, al suo interno si sta svolgendo una funzione religiosa ortodossa. Entriamo. Rimaniamo colpiti dalla piacevolezza dei colori vivaci degli affreschi che ne coprono interamente le pareti che sembrano entrare in perfetta armonia con i colori degli abiti dei fedeli raccolti in preghiera. E’ la prima volta che entrando in una chiesa respiro un’atmosfera così piacevole…..di armonia , gioia e vivacità. Rimaniamo in silenzio ad ascoltare le voci basse e profonde dei due officianti che intonano un canto mentre il terzo distribuisce le ostie ai fedeli…..che bella sensazione di pace….ne usciamo come arricchiti di qualcosa. Rientriamo in hotel alle ultime luci del tramonto, poi in taxi raggiungiamo un piacevolissimo ristorante che propone cucina araba. Il Safran ci accoglie con il suo ambiente piuttosto sofisticato nei toni del senape e del marrone. Grandi lampadari con paralumi neri, cuscini a disegni arabeggianti ed una piacevolissima musica diffusa discretamente tra i tavoli ed i salotti. Mangiamo benissimo anche se troppo…ormai non siamo più abituati a tanto cibo ed i quattro chili persi nel corso del viaggio lo dimostrano. La serata è da ricordare perché chiacchierando e raccontandoci le recenti esperienze di svenimento con convulsioni che hanno colpito entrambi nell’ultima settimana, riusciamo ad individuare una possibile causa o forse solo un sintomo comune….è pur sempre qualcosa su cui lavorare! E’ decisamente fresco quando in taxi raggiungiamo l’hotel e la camera gelida….non ci resta che tuffarci sotto il nostro piumone.

23 Agosto 2009

ALMATY

Vanni esce in missione subito dopo la colazione. Il suo obiettivo è quello di cercare l’ufficio dell’agenzia consigliataci da Catia e che potrebbe aiutarci a trovare una sistemazione per l’auto. Quando lo vedo tornare è già passata l’una del pomeriggio…mi racconta che il suo sopralluogo si è spinto fino al parcheggio dell’aeroporto del quale ha avuto una buona impressione. E’ tornato solo per prendere un foglio della dogana….quello con scadenza 31 agosto 2009. Lo aspetta presso il garage un ragazzo che conosce un doganiere che potrebbe aiutarci a cambiare la data sul documento di ingresso di Asia. Andiamo insieme accompagnati dall’autista dell’hotel che da ieri sera si è completamente dedicato a noi e raggiungiamo il parcheggio. Si tratta di un edificio coperto su più livelli nel quale spiccano alcuni suv nuovi fiammanti che sono sicuramente più appetibili della nostra datata Asia. Domani verificheremo se il garage è assicurato per gli eventuali furti e tratteremo sul prezzo di 800 Tenge, ovvero circa 3.5 € al giorno. Ora invece ci ritroviamo con il ragazzo che parla inglese e che traduce per noi la proposta del doganiere di correggere a mano la data di scadenza del permesso di Asia in cambio di 1000 $…..una follia! Va bene essere corrotti…ma bisogna anche dare qualcosa di sensato in cambio! Il ragazzo intanto caldeggia l’affare perché vuole avere la sua percentuale, necessaria per uno studente come lui, dice, e poi l’ambasciata italiana è nella lontana Astana, affonda allo scopo di convincerci. Disgustati ce ne andiamo a fare un giro perlustrativo in città, tra viali alberati e parchi, i giardini ed i pochi edifici degni di essere guardati, quasi tutti in fase di restauro compresa la bellissima chiesa ortodossa….la cattedrale di Zenkov, colorata in toni sgargianti tra i quali spicca il giallo, il colore preferito di Vanni. E’ uno dei pochi edifici di epoca zarista ad essere sopravvissuto al terremoto del 1911 ed è di una bellezza gioiosa, vivace….verrebbe voglia di giocarci o di mangiarla…talmente ingolosisce. Rientriamo nel tardo pomeriggio dopo la passeggiata che ci ha visti camminare per chilometri fra le strade desolate del centro e nei giardini invece affollati dei passeggiatori della domenica. Abbiamo così avuto il tempo di farci un’idea di questa città che vive del boom economico legato al petrolio ed anche del ristorante che opzioneremo questa sera, un Sushi bar sulla Dostyq che però non raggiungeremo mai….per un problema di omonimia infatti il taxista che parla solo russo ci porta in un ristorante “italiano” che propone anche sushi. Trascorriamo la serata ascoltando musica italiana anni ’70 e ’80 e mangiando un sushi non proprio eccelso, ma la pizza almeno era ottima!

24 Agosto 2009

ALMATY

La sveglia suona alle otto…dovendo risolvere il problema di Asia è bene attivarsi presto, tanto per non rimanere intrappolati ancora ad Almaty che non merita più di qualche giorno. Trascorriamo la prima mezz’ora alla reception dell’hotel dove la gentilissima Aleksandra telefona per noi alla manager del parcheggio dell’aeroporto….la signora Saule Baytileeva che non parla inglese. In seguito alla richiesta di sconto caldeggiata dalla manager dello Hyatt, la signora Saule scende dagli 800 tange inizialmente richiesti per la sosta giornaliera, a 500 tange, ed è disponibile a sottoscrivere una lettera di garanzia per la sosta di Asia nel parcheggio di cui lei è responsabile. La raggiungiamo poco dopo nell’ufficio situato al terzo piano dell’hotel Aksunkar, stanza 343. Saule è una signora giovane, dinamica e simpatica almeno quanto la sua segretaria, la signora Rosa, con la quale faccio una chiacchierata di reciproca conoscenza grazie al vocabolario di russo che portiamo sempre con noi. Intanto Vanni parcheggia Asia, paga la metà dell’importo totale calcolato nei dieci mesi di sosta previsti e mi raggiunge di nuovo dalla signora Rosa che ora so ha tre anni meno di me, due figli di 19 e 10 anni ed una gran curiosità di conoscere noi due italiani. Sistemata ogni cosa, a parte il documento della dogana che vedremo di risolvere quando torneremo, ci congediamo dalle due signore e rientriamo in hotel per l’acquisto dei biglietti aerei….ora siamo liberi di tornare in Italia e per la prima volta ne abbiamo anche voglia!



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26 Giugno 2010

BOLOGNA – ALMATY

Trenta minuti dopo la mezzanotte il boeing 747 Lufthansa atterra all’aeroporto di Almaty segnando così l’inizio della nostra seconda avventura asiatica che siamo pronti ad affrontare con il supporto di un interprete tutto per noi! Memore delle complicazioni doganali legate alla presenza in territorio ex URSS della nostra auto italiana il cui permesso è scaduto circa nove mesi fa Vanni ha organizzato dall’Italia il contatto con un interprete, partorito dopo un fitto scambio di e-mail protrattosi per almeno 15 giorni con il console di Almaty e la ICE, un’agenzia che fornisce interpreti a supporto di commercianti europei che operano qui in Kazakistan.
Sultan Omar arriverà in hotel fra nove ore come confermato nel corso della breve telefonata fatta qualche ora fa dall’aeroporto di Bologna tanto per essere certi di non essere soli ad affrontare i cavilli burocratici kazaki…… l’appuntamento con lui ci rassicura almeno quanto il vedere Asia al suo posto, ferma nel vicino parcheggio dell’aeroporto dove l’avevamo lasciata circa un anno fa. Nascosta da un denso strato di polvere grigia che ne lascia intuire solo la silhouette ci appare in questo momento come l’auto più bella del mondo, perché è davvero bella e poi per tutte le avventure condivise che ci legano a lei almeno quanto a Gazelle ora ferma in Camerun ed alla scomparsa Carolina che rimarrà per sempre nei nostri cuori. La camera che raggiungiamo poco dopo è al quarto piano del vicino Hotel dell’aeroporto, dozzinale e rumorosa per via dell’adiacente pista di atterraggio il suo bagno non ha nemmeno la carta igienica che recupero nel bagno collettivo del piano. I due lettini cigolanti e così corti da non contenerci uniti alla nostra agitazione per le incognite delle quali solo domani avremo una risposta ci lasciano svegli per ore a rigirarci sui materassi come su due graticole. Quando verso mezzogiorno raggiungo la sorvegliante di piano trincerata dietro una massiccia scrivania sul fondo di una lunga striscia di moquette rossa, incontro Sultan, dai lineamenti orientali ma vestito come un manager occidentale. Alla parola d’ordine “Alessandra” segue un bel sorriso di benvenuto ed immediatamente dopo un professionale aggiornamento sulla situazione Asia. Ci sono due possibili soluzioni per risolvere il problema doganale della nostra auto ora praticamente clandestina in territorio kazako….. rivolgersi al tribunale per ottenere un regolare permesso che sarebbe rilasciato in un paio di settimane oppure ottenerlo in cambio di una mancia rivolgendoci direttamente al doganiere di Kopaan che ci rilasciò l’anno scorso un permesso valido per soli venti giorni. Mentre raggiungiamo Vanni al lavaggio auto Sultan mi dice che la scelta è già stata fatta e che lunedì ci accompagnerà alla frontiera dove finalmente ci verrà consegnato l’agognato foglietto. Prendersi cura di Asia ha nel frattempo restituito a Vanni le energie che la notte quasi insonne gli aveva sottratto, quindi raggiungiamo tutti insieme l’ hotel Hyatt dove dopo una bella colazione consumata nella luminosa hall centrale in compagnia di Sultan ripariamo in camera per una doccia ed un sano relax in vista della cena di questa sera con il console e consorte. E’ di qualche ora dopo la bella sorpresa del vedere arrivare all’appuntamento una coppia di spigliati quarantenni anziché i sessantenni dinoccolati e vagamente snob con i quali avevamo immaginato di trascorrere una noiosissima serata… Il poliedrico Marco, ben rivestito di muscoli da bodybuilder è anche interprete e comparsa cinematografica, Marina invece è attrice di teatro. Bionda e delicata indossa un discreto abito panterato ed è una celebrità qui in Kazakistan ci tiene a sottolineare il console, ma parla solo russo e così lui finisce col lavorare tutta la sera come impeccabile interprete simultaneo. L’attenzione si mantiene sempre al massimo, ognuno affascinato dalle altrui storie che emergono nel corso della serata che si protrae fino a tardi senza mai cedere alla noia….. tra una parola e l’altra cerco di immaginare lei mentre recita l’ultimo dramma di successo “ la ballata della solitudine” e lui, innamorato e sensibile mentre si commuove in platea mimetizzato fra il pubblico…. mai avremmo immaginato di trascorrere la serata con una Mariangela Melato Kazaka! Quando alla fine ci salutiamo abbiamo già compiuto un virtuale giro del mondo, dai leoni del Masai Mara alle linee di Nazca, da Miami a Palermo, la città che Marco lasciò appena maggiorenne con 200 $ in tasca ed un gran desiderio di scoprire cosa si celasse dietro quei caratteri cirillici che lo avevano tanto incuriosito da adolescente. Che belle persone e che bella serata!

27 Giugno 2010

ALMATY

Dedichiamo il pomeriggio a passeggiare per le assolate strade del centro oggi deserte per il consueto esodo domenicale degli abitanti di questa Milano kazaka, fuggiti dalla città per inseguire le fresche alte montagne che la circondano. Noi che invece siamo rimasti facciamo fronte all’emergenza caldo torrido cercando l’ombra dei viali alberati mentre avanziamo fra i fatiscenti condomini ed i begli edifici pubblici del periodo sovietico …. tra questi ce ne sono un paio particolarmente interessanti per l’originale design dell’involucro esterno ovvero l’edificio del Circus e la Casa dei Matrimoni. Il primo, coronato da una copertura circolare conica che esplode al centro in una sorta di manico oblungo, è sede di spettacoli acrobatici e di balletti folcloristici, il volume circolare del secondo edificio invece è avvolto da una trina metallica a disegni geometrici… le centinaia di rose rosse sbocciate nel giardino che lo circonda ne esaltano il bianco assoluto e l’armonia delle proporzioni…. sono davvero bellissimi questi edifici del razionalismo sovietico e così antitetici rispetto alla dozzinale edilizia residenziale. Mentre ci soffermiamo a godere della frescura che arriva dagli zampilli d’acqua sparati verso l’alto sulle vasche prospicienti gli edifici pubblici, osserviamo con interesse il vicino Teatro dell’opera drammatica. Scatolare e severo è articolato in facciata da decise semplici geometrie riprese negli eleganti elementi decorativi di bronzo aggettanti sulle campate che scandiscono i fronti con marcati chiaroscuri. Le citazioni del passato regime emergono in forma completamente diversa nell’impostazione rigorosamente neoclassica di alcuni edifici rappresentativi e in alcuni dettagli che scorgiamo qua e la come la coppia di falci e martello disegnate in bassorilievo sulle ante di un cancello grigio o nella stella dorata in cima ad una breve asta sull’angolo di un edificio….. e che dire della pacata tristezza sui visi della gente…. ancora un effetto del passato regime o solo l’insoddisfazione di non aver potuto raggiungere le fresche montagne? Camminando a random lungo i viali di questa piacevole Almaty raggiungiamo la non vicinissima cattedrale le cui cupole dorate emergono oltre le cime degli alberi del parco che la contiene. E’ la chiesa ortodossa più antica della città, i timpani, le torrette e la struttura tutta furono realizzati in legno ed assemblati ad incastro nel lontano periodo zarista. Gialla e bianca, spiccano i tetti rivestiti da squame multicolori in plastica e le cupole ricoperte di fintissime squame dorate. I pochi rimasti in città sembrano tutti qui riuniti attorno alla chiesa, a godere della frescura del parco e del suono delle campane che producono lunghe melodie tintinnanti. Nessun taxi è disponibile per il nostro rientro in hotel….. i pochi che passano sono occupati e non abbiamo intenzione di cedere all’usanza locale di affidarsi ai privati pagando loro un obolo in cambio di un passaggio…. rimaniamo così fermi in attesa di un taxi regolare mentre vicino a noi diversi locali fermi sul bordo della strada salgono tranquilli sulle auto che si fermano e li caricano a bordo….. comodo per loro che conoscono la lingua e la città!

28 Giugno 2010

ALMATY – LAGO BALQASH

In compagnia di Sultan e della fidanzata Gasiza che Vanni ha invitato ad unirsi a noi, tutti stralunati per la sveglia presto raggiungiamo la frontiera di Korday per reperire il regolare permesso doganale di Asia strappato per 10.000 Tenge, l’equivalente di 50 €, al doganiere compiacente che Sultan ha saputo convincere. Cielo azzurro e sole cocente aspettiamo i pochi minuti necessari per ottenere il prezioso foglio che riporta come unica data quella entro la quale dovremo uscire con l’auto tra un mese esatto ovvero a fine luglio. La speranza è che quando usciremo dal Kazakistan ai doganieri non venga in mente di verificare nella loro banca dati da dove siamo entrati perché scoprirebbero che siamo arrivati in aereo ad Almaty ma l’auto invece risulta entrata dal Kirgistan ora in piena guerra civile e del quale non abbiamo sul passaporto recenti visti di ingresso. Rimandato per il momento il problema burocratico ci avviamo verso il lago Balqash la cui estremità più vicina a noi dista 400 km in direzione Nord-Ovest….. distanza considerevole considerate le non perfette condizioni della strada che si snoda lineare attraverso la steppa flessa come un oceano in lunghe onde nelle tonalità del verde. Dalla sua superficie emergono come enormi scogli sparuti speroni di roccia ed i fiori selvatici che disegnano macchie rosa, bianche e gialle. A complicare la suggestiva monotonia del paesaggio arrivano due multe, o meglio due mance elargite per non avere le multe, di 5.000 Tenge l’una ed anche le note di una vecchia canzone kazaka che Gasiza ci propone dal suo telefonino. Si tratta di “Ale Turaly Zhur” la cui dolce e malinconica melodia riempie Asia e poi il paesaggio in un perfetto connubio come se quelle note fossero state generate dalla steppa stessa. Timida ed esclusa dalla conversazione per via della lingua che non conosce Gasiza siede accanto a me sul sedile posteriore e come me soffre per la stanchezza ed il caldo soffocante fino all’avvistamento del Lago che finalmente raggiungiamo nel tardo pomeriggio e la cui superficie azzurra fa esplodere in tutti noi gioia e curiosità. Dopo circa 600 km di steppa che si perdeva infinita all’orizzonte la vista dell’acqua viene infatti festeggiata con l’entusiasmo di chi la vede per la prima volta nella vita e l’illusione di aver raggiunto il traguardo ci da un grande sollievo….. ma la gioia lascia il posto alla delusione quando dopo aver costeggiato per qualche decina di chilometri il bel lago azzurro ora circondato da un paesaggio brullo quasi desertico ci rendiamo conto di non poter dormire nelle topaie che il centro abitato di Myngaral offre ai viaggiatori. Sui nostri visi la disperazione per i 120 km ancora da percorrere in vista di una sistemazione per la notte almeno decente…. solo Vanni non mostra segni di cedimento e nonostante la stanchezza stringe i denti e concentrandosi sulla strada ora meno regolare ci conduce in un Motel nella periferia della cittadina di Balqash dove il maggior comfort della nostra camera lusso è rappresentato dalla presenza del bagno e forse dai tendaggi arzigogolati color marroncino che rivestono l’intera parete finestrata. Nonostante la desolazione del Motel però pulito la cucina del ristorante è ancora aperta alle 22 quando dopo una rapida doccia, necessaria dopo un viaggio durato 15 ore, affamati e stanchi ci sediamo ad uno dei tavoli tutti vuoti.

29 Giugno 2010

LAGO BALQASH – QARAGHANDY

Dedichiamo quel che resta della mattinata dopo la sveglia tardi all’esplorazione di un paio di spiagge nei pressi della cittadina, quelle per capirci più gettonate dai benzinai ai quali chiediamo informazioni. Ci troviamo così a calpestare in prima battuta il ghiaino scurissimo di un centro vacanze del periodo sovietico dove i turisti arrivavano dopo l’acquisto di un biglietto all inclusive che comprendeva anche il cibo della mensa che Sultan ci assicura essere stato orribile. I bassi edifici che ospitavano i turisti sembrano ora disabitati e cadenti ma sono bellissimi i vecchi giochi per bambini sulla spiaggia i cui metalli scoloriti dal tempo ed i meccanismi così disassati da renderli non più utilizzabili conferiscono loro un fascino quasi archeologico. Anche i parasole quadrati di metallo giallo con qualche punta di ruggine non sono male …. penso mentre li guardo stagliarsi contro il costruito che fa da quinta alla spiaggia scura ed all’acqua salmastra lattiginosa ora di colore verde chiaro che non avendo confini visibili ci appare da qui come quella del mare. Questo luogo la cui decadenza ha il sapore forte di un duro passato avrebbe potuto essere il set cinematografico dei film dell’espressionismo tedesco alla Fritz Lang….. ma nonostante l’indubbio fascino non mi fermerei qui se non per il tempo sufficiente ad assorbirne la particolare ed inquietante atmosfera. Dall’alto dei suoi tacchi altissimi Gasiza incede traballando verso l’acqua…. esile e delicata non rinuncia alla tortura del tacco vertiginoso che indossa in ogni circostanza come la maggior parte delle ragazze kazake in età da marito….. poi cediamo tutti e indipendentemente dall’altezza dei nostri tacchi ci sediamo sul ghiaino nero ad osservare quella magnifica superficie verde chiaro, il coperchio d’acqua salmastra che ha ospitato gli ottimi pesci di ieri sera. La seconda spiaggia che visitiamo è stretta fra uno sperone di roccia ed una lingua di scogli che si spingono dentro l’acqua. Più gettonata della prima spiaggia non ha però nessun fascino e le centinaia di mozziconi di sigarette infilate nella sabbia fine nonché i container adattati ad abitazione che fanno da sfondo non aiutano ad apprezzarla. Risaliamo a bordo di Asia diretti a Qaraganda, la terza città per dimensioni del Kazakistan a circa 370 km da qui. Solo dopo mi rendo conto che Gasiza ha un muso esagerato … come quando ad una bambina si toglie la sua bambola preferita. Credo volesse fermarsi al lago ed ora si starà chiedendo come mai noi non abbiamo sentito la sua stessa necessità. Mi chiedo cosa ci trovasse di così irresistibile in un posto come quello, nel quale mai nella vita avrei sostato più di 15 minuti….. siamo diventati troppo esigenti, mi rendo conto…. del resto questo è lo scotto che si paga viaggiando molto e vedendo qua e la dei veri paradisi dai quali è un problema andar via. Ancora steppa a perdita d’occhio più o meno mossa in leggeri pendii, avvistamento di cavalli allo stato brado e molto calore ma nessuna gher all’orizzonte…. il nomadismo tuttora praticato in Mongolia ed in Kirghizistan è stato definitivamente debellato qui in Kazakistan…. peccato! Avrebbe movimentato la monotonia del paesaggio che si è ora complicato delle montagne di riporto del materiale di scarto derivante dalle miniere di carbone e di rame che sono nei pressi. Continuano invece sistematiche a rovinare il paesaggio altrimenti di un certo fascino nonostante la monotonia le linee elettriche sui tralicci che corrono in ogni direzione. Alloggeremo al Chaika, un hotel enorme ed apparentemente pretenzioso che propone appartamenti piuttosto squallidi ed un pò scassati. Optiamo così per due camere nella dependance che fu il primo nucleo dell’hotel. In stile neoclassico ed immerso nella vegetazione l’edificio è piacevolissimo ed ospitò i cosmonauti russi così come riportano le targhe appese all’esterno. la nostra camera sembra concepita per ospitare una bambola piuttosto che due turisti come noi…. leziosa ma pulita è ampia e le sue pareti furono forse sfiorate da un coraggioso astronauta nei lontani anni ’60. Gasiza si è ripresa dal musetto ed è tutta felice, anzi sconvolta per le dimensioni della vasca ad angolo nel bagno….. deve esserle piaciuta molto la sua camera. Durante la cena che consumiamo in hotel Vanni ci racconta che quando era un ragazzino la discoteca del circolo dei comunisti di Forlì si chiamava appunto Chaika….. sulla scia dei ricordi ci confida con il sorriso sulle labbra che allora il bigliettaio della disco amava stendere un alone di mistero attorno a quel nome incomprensibile…..diceva che era il nome di una entità superiore che a loro ancora troppo piccoli non poteva essere svelata….. che delusione per lui scoprire dopo quarant’anni grazie alla traduzione onesta di Sultan che si trattava solo di un banalissimo gabbiano!

30 Giugno 2010

QARAGHANDY – ASTANA

Nel primo pomeriggio dopo altri 300 km di steppa sterminata raggiungiamo Astana il cui nome in lingua kazaka significa appunto capitale. Il presidente che l’ha voluta quindici anni fa voleva fosse chiaro a tutti che la capitale non sarebbe più stata la piacevole Almaty. Ex operaio al potere dal 1991 Nazarbayev fu eletto presidente in qualità di esponente del partito democratico ed ora esercita il suo potere praticamente assoluto all’interno di un parlamento senza opposizione e l’ultima elezione lo ha visto conquistare più del 90% dei voti probabilmente in seguito a brogli elettorali. Astana è il parto della sua sete di protagonismo, il progetto della sua vita. Non volendosi limitare all’usanza di alcuni presidenti europei che nell’intento di lasciare un ricordo tangibile di loro alle nazioni che hanno governato per un breve periodo hanno fatto realizzare una grande opera a loro intitolata, come nel caso della Biblioteca Nazionale di Parigi voluta da Mitterand, non volendosi limitare a questo Nazarbayev ha voluto realizzare una intera città, la capitale, spendendo per questo una cifra astronomica che se ripartita sui 15.000.000 di kazaki li avrebbe resi ricchi. Entriamo ad Astana attraverso la città vecchia riqualificata da alcuni alti e recenti edifici di un certo pregio che sorti accanto ai soliti vecchi e squallidi casermoni riescono in qualche modo a neutralizzarli. Stiamo cercando un hotel dove fermarci ma la città è piena di visitatori per via dei festeggiamenti in pompa magna del compleanno del nostro Nazarbayev e gli hotel sono tutti al completo. La sistemazione arriva casualmente quando fermi ad un semaforo Sultan chiede indicazioni per raggiungere un hotel che abbiamo in lista ad una coppia di signori seduti nell’auto accanto. Compiamo il nostro destino seguendoli nel loro modestissimo hotel in periferia ed occupando un paio di camere piuttosto squallide ma pulitissime. Si tratta dell’Hotel Kemep, realizzato da maestranze non proprio qualificate e senz’altro non esperte nella posa delle piastrelle, così come nella realizzazione degli impianti che nei bagni sono sempre tutti esterni, centimetri di stuccature annerite dal tempo e le docce che perdono acqua. Lasciamo presto l’hotel per accompagnare Gaziza alla stazione degli autobus, mentre noi proseguiamo in taxi verso la città nuova, quella progettata secondo le precise indicazioni del presidente che occupa l’altra sponda del fiume, attirati dagli alti edifici che spuntano radi e sparpagliati dal tessuto urbano. Raggiungiamo per primo l’oggetto immagine simbolo della città ovvero la torre slanciata progettata dal famoso architetto inglese Norman Foster …. un fascio di sottili nervature bianche che si aprono in alto ad accogliere una grande sfera dorata dalla quale si può godere di una fantastica vista d’insieme sulla città. Il bellissimo progetto è stato però realizzato troppo in economia, ce ne accorgiamo una volta saliti sul top. Saldature grossolane, materiali di finitura scadenti compresi i pannelli trasparenti del belvedere che essendo di plastica e non perfettamente lisci tendono a deformare la città sotto di noi. Da quassù il progetto urbano appare chiaramente svilupparsi su un asse che ha ad un estremo la casa del presidente, una sorta di Casa Bianca in scala gigante coronata in alto da una cupola azzurra. Distanziato da chilometri di aiuole fiorite un edificio disegnato come un grande portale segna l’estremità opposta dell’asse principale. Sui due lati sorgono alcuni edifici piuttosto interessanti tra cui un gruppo di torri a base quadrata che si sviluppano salendo con un movimento a onda. Oltre alla profusione di fiori contenuti nei chilometri quadrati di aiuole ci colpiscono la varietà degli stili che caratterizzano gli edifici emergenti dal tessuto, da quello chiaramente cinese con i tetti a pagoda al neogotico….. ce n’è uno molto simile ad un grattacielo di Chicago ed uno che non poteva proprio mancare, quello a piramide con chiaro riferimento al Louvre di Parigi, e così via in un patchwork che accosta agli obelischi ed alle arcate neoclassiche le copie degli edifici contemporanei che più hanno colpito l’immaginario del presidente. Il fiume quasi non lo percepiamo se non quando lo attraversiamo a tutta birra a bordo del taxi…. insomma Astana non mi convince fino in fondo, nonostante le decine di foto scattate con entusiasmo nelle ore caldissime del pomeriggio, fino al tramonto quando esausti ripariamo in un ristorante italiano che Sultan ha già sperimentato in passato e dove mangiamo degli ottimi spaghetti, poi stremati per i 38° di oggi rientriamo al Kemep.

01 Luglio 2010

ASTANA – PAVLODAR

Lasciamo la città solo dopo un ripassino del centro urbano nel quale non contenta voglio scattare ancora qualche foto a favore di luce. Non vi si scorgeranno le brutte saldature né le lastre di granito già sconnesse di molti scalini o i muretti sberciati dopo pochi anni dalla realizzazione. Non si vedrà insomma la scarsa qualità delle realizzazioni ma salterà all’occhio l’accattivante profilo degli edifici progettati dagli architetti europei che si inseriscono in un progetto urbano piuttosto piacevole nel quale anche oggi amiamo perderci per esplorarne gli angoli più d’effetto. Mentre sono in compagnia di Sultan in contemplazione sotto la bella torre di Foster assistiamo all’arresto di un paio di ragazzi, forse fondamentalisti islamici come ipotizza lui. Dice che i fondamentalisti sono trattati alla stregua di terroristi ed escono dai processi sempre con il massimo della pena…… l’attività sovversiva può essere anche solo denunciata dalla presenza a casa tua di un libro o altro materiale. In occasione dei tre giorni di festa nazionale che cadono proprio in concomitanza con il compleanno del presidente la città è in grande fermento, decine di gher vengono allestite nelle piazze che si incontrano lungo l’asse principale così come palchi, tribune e maxi schermi, è normale che i controlli di polizia siano più severi per garantire la sicurezza di tutti, mi dice Sultan come per giustificare la scena. Non abbastanza soddisfatti della città per voler rimanere un giorno ancora ripartiamo diretti a Pavlodar….. ma si tratta di una falsa partenza. Dopo circa 40 km infatti dobbiamo tornare in capitale per riempire il serbatoio di Asia, nella prospettiva proseguendo sulla nostra strada per Pavlodar di non trovare un distributore per almeno altri 100 chilometri. Poi la steppa infinita riempie i nostri finestrini disturbata solo dai tralicci della ferrovia che ci seguono a distanza regolare….. insomma una noia di viaggio al termine del quale raggiungiamo Pavlodar, una città sul fiume senza pregi se non quello di offrirci una camera al nono piano dell’hotel Pavlodar. Come talvolta è successo anche qui paghiamo la camera con un grosso sconto per via del nostro arrivo tardi….. in pratica il prezzo è calcolato sulla quantità di ore che vi soggiorneremo e così essendo noi arrivati dopo le 19 possiamo rimanere fino alle 10 di domani mattina pagando la mezza giornata al costo di 6.000 Tenge, 32 €, per la nostra confortevole camera che gode di una bellissima vista sul fiume e sul paesaggio vivificato dalla rigogliosa vegetazione arbustiva che lo segue. Le belle sorprese dell’hotel continuano nel ristorante dell’ultimo piano dove un gruppo di studenti della facoltà di medicina festeggiano la fine dell’anno accademico. Sono belli e scatenati, soprattutto le ragazze che in abito da sera sfoggiano fisici perfetti da copertina. Quando scoprono parlando con Sultan che siamo italiani e del lungo viaggio che abbiamo fatto dall’Italia fin qui, vogliono assolutamente conoscerci e fotografarci e ballare con noi. Ci abbandoniamo con piacere alle danze ed al nostro momento di gloria sulle note di canzoni rock locali ma anche turche ed americane…. insomma la serata si rivela più divertente del previsto!

02 Luglio 2010

PAVLODAR – SEMEY

La giornata si apre con un paio di novità, la prima è il cielo livido di nuvole grigie, la seconda il check-up di Asia presso la officina Toyota dalla quale esce in forma smagliante ancora con i bigodini. Il direttore della sede Toyota ha persino voluto essere immortalato con Vanni ed Asia, incuriosito dal nostro viaggio raccontatogli brevemente dal fedelissimo interprete Sultan. Il direttore vorrebbe tanto vedere la foto che lo ritrae nel nostro sito internet….. ma solo se pagherà commenterà Vanni in seguito. Uscendo dalla città, piuttosto anonima a parte la bella vista sul fiume della quale abbiamo ampiamente goduto, ne attraversiamo il quartiere più antico dove abbiamo l’inaspettata opportunità di vedere le poche case di epoca zarista sopravvissute al degrado del tempo. Ad un solo piano ed interamente di legno, con la variante delle pareti esterne in tronchi o assi, sono coronate in alto da un tetto di lamiera a quattro acque molto inclinate. Le note di colore che spiccano sulle pareti rese grigiastre dal tempo sono le finestre, le cui cornici intagliate a motivi geometrici o con semplici volute sono talvolta colorate di azzurro e rappresentano l’unico elemento decorativo dei prospetti. Dopo tanti casermoni queste casette sono per noi come dei piccoli tesori, così come le foreste di pini che arrivano una cinquantina di chilometri prima di Semey. Dopo giornate intere tra la steppa il repentino cambiamento di paesaggio con ettari di pini e betulle che sfilano ai bordi della strada ci da un improvviso ed inaspettato sollievo. Sempre più insofferente per le lunghe ore trascorse da giorni in auto senza colpi di scena o paesaggi mozzafiato da osservare fuori dal finestrino inizio a sentirmi come in aereo, col vantaggio di poter fumare quando voglio e lo svantaggio di non avere la sorpresa di inaspettati spuntini offerti dalle gentili hostess di bordo. Colgo così al volo l’occasione di visitare un piccolo villaggio di case di legno che sfila sulla nostra destra sullo sfondo di una foresta lontana…. un portone metallico aperto dà accesso al piccolo borgo racchiuso all’interno di un’ alta staccionata. Non è disabitato come abbiamo creduto in un primo momento ed incuranti delle reticenze di Sultan ad entrare, parcheggiamo nell’ampio spazio aperto al centro del caseggiato. Tutte in tronchi di legno le case occupano i bordi di un ampio rettangolo, verso lo spiazzo centrale si sviluppano invece i recinti per gli animali e le piccole stalle. Quando torno verso i ragazzi dopo un breve giro di perlustrazione li trovo circondati da un gruppetto di uomini e bambini che conversano curiosi con loro. Scopriamo così, grazie alla traduzione simultanea di Sultan che si tratta di un villaggio di operai della forestale che si occupano dei boschi rimasti nella zona circostante. Quando ripartiamo dopo una mezz’oretta spesa in simpatiche chiacchiere ed a scattare foto di gruppo ai sempre più numerosi guardia bosco accorsi curiosi, un’aquila spuntata all’improvviso quasi si scontra con il parabrezza di Asia. Semey ci accoglie dopo qualche decina di chilometri, grigia ed inondata dalla pioggia caduta da poco. E’ la città più povera tra quelle visitate finora e non sembra essersi sviluppata da decenni. La possibile risposta arriva poco dopo, leggendo sulla guida degli esperimenti nucleari eseguiti nei dintorni tra il 1946 ed il 1963….. a questo punto abbiamo solo voglia di ripartire!


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18 Siberia Occidentale


03 Luglio 2010

SEMEY – BARNAUL

Come previsto il passaggio della frontiera kazako-russa ci impegna per più di quattro ore nonostante il modesto flusso di persone che la attraversano. Isolati e lontani dai centri abitati non c’è nulla che si possa fare qui se non aspettare il nostro turno una, due volte mentre i pullman di linea passano sistematicamente avanti. Il flusso di auto locali russe e kazake presupporrebbe tempi di controllo più brevi invece l’iter è lo stesso per tutti. Ciò che colpisce di questa gente posta di fronte alle lungaggini e le lunghe attese è la rassegnazione senza proteste…. ed anzi si inchinano di fronte ai bassi sportelli degli uffici della dogana, fatti così in basso appositamente per indurre un forzato gesto di riverenza nei confronti delle autorità. Anche Sultan come gli altri si inchina ma poi ci tiene a sottolineare in privato che in Kazakistan non è più così e tutti gli sportelli degli uffici pubblici consentono ora ai cittadini di mantenere una decorosa posizione eretta in ogni circostanza. E’ già l’una e mezza quando finalmente calpestiamo l’asfalto in buone condizioni del territorio russo, e mancano ancora 400 km per raggiungere l’obiettivo che ci siamo prefissi di raggiungere in giornata. La città di Barnaul offre buone sistemazioni alberghiere ed un paio di cose interessanti da vedere, ma è lontana, anzi lontanissima dopo una settimana trascorsa quasi interamente seduti in auto. Alla stanchezza si aggiunge la cattiva notizia di Sultan che aveva dato la sua disponibilità di accompagnarci fino al confine mongolo ma che ora ritratta clamorosamente dicendo che potrà venire con noi solo fino a Barnaul. Il motivo è che dovendo essere ad Almaty per lavoro la mattina del 7 deve calcolare un tempo sufficiente a consentirgli di tornare in treno o in pullman in un territorio dove i mezzi pubblici non sono così frequenti da garantire spostamenti rapidi….. io credo che come me non ne possa più di trascorrere le sue giornate on the road senza mai una sosta ricreativa in un posto piacevole dove riappropriarsi del proprio corpo e dei suoi movimenti in armonia con l’ambiente che ci circonda. Anche solo due passi sarebbero sufficienti…. nei boschetti che vediamo qua e là o in un piccolo borgo di dacie che scopriamo da Sultan essere le case di villeggiatura ovvero le seconde case dei cittadini russi solitamente realizzate in luoghi ameni. Intanto attraversiamo l’oceano qui verdissimo della campagna flessa in onde lunghe ….. potrebbero essere gli immensi prati di un fantastico castello nascosto da un’onda particolarmente alta…. divisi in grandi appezzamenti da doppie file di betulle o pini…. una vera meraviglia! Ma a nulla valgono i bei prati verdi, man mano che avanziamo verso l’obiettivo il nervosismo in auto sale. Vanni è sempre più contrariato all’idea di dover fare il tratto di strada che ci separa dal confine mongolo senza un interprete che ci aiuti, necessaria interfaccia tra due idiomi inconciliabili…. ed io inizio a trasformare la stanchezza di questo tour de force in incazzatura pesante. Pian piano le parole non escono più e gli occhi si chiudono…. mi ritraggo dentro il mio guscio in atteggiamento di difesa consapevole che se questa situazione non finirà presto potrei anche impazzirne. Intanto ripenso alle promesse da marinaio di Vanni prima della partenza…. “ questa volta ce la prenderemo con calma… deciderai tu i tempi del viaggio”…. poi dà a mia insaputa un appuntamento all’interprete mongolo che ci aspetta al confine per il 5 luglio! inizio seriamente a credere che Vanni in fondo tenda a prendersi gioco degli altri, io compresa, dicendo piccole bugie che gli consentano di raggiungere i suoi obiettivi senza troppe polemiche preventive. La sommatoria dei rispettivi stress si abbatte sul resto della giornata… fin quando mi faccio scaricare in centro per fare due passi e andare a vedere un paio di case di legno intagliato del periodo zarista che la guida consiglia di visitare, ma non trovandole immagino siano state distrutte. Gusto la mia passeggiata come un ottimo gelato le cui ciliegie sono rappresentate dal bell’edificio del teatro in parte rivestito da splendidi mosaici vagamente decò, i bassorilievi inneggianti al lavoro operaio visibili sui fianchi di edifici che si affacciano sul viale principale e perché no la statua in bronzo di Lenin che si staglia in controluce contro il neoclassico municipio e conferisce un’atmosfera marziale alla piacevole piazza che la contiene. Tutta soddisfatta, al rientro in hotel mi ritrovo a condividere con Vanni una camera così piccola da non riuscire a muoverci lasciando il trolley aperto sul pavimento….. per una volta che lascio scegliere a lui mi ritrovo in un buco….. che momentaccio ! A questo si aggiunge lo stress legato alla notizia letta sulla Lonely Planet che afferma che per entrare nella Repubblica di Altay, che dovremo attraversare per entrare in Mongolia, è necessario avere un permesso speciale con lettera d’invito. All’ambasciata russa in Italia ed anche in frontiera gli impiegati avevano assicurato che non era necessario nessun ulteriore documento se non il normale visto russo, ma come esserne certi?…. e poi come faremo se dovremo risolvere il problema da soli senza capire una parola di russo…. unica lingua parlata da tutti i funzionari dello stato? Nemmeno l’ottima insalata gustata al Gran Mulino riesce ad eclissare il malumore ed il gelo che ne scaturisce ed anche Sultan ora è arrabbiato perché vorrebbe non allontanarsi da questa città fino a domani sera quando potrebbe prendere un comodo treno per Almaty…. ma Vanni non molla su nulla ed avendolo già pagato pretende che almeno venga con noi fino a Biysk. Serata da dimenticare.

04 Luglio 2010

BARNAUL – LAGO AIA

Al risveglio Vanni si prodiga per recuperare la situazione ostentando un’allegria che io non riesco ad assecondare, sono sempre incazzata nera come sempre succede almeno una volta nel corso dei nostri viaggi e sempre per lo stesso identico motivo. Non si può capire la mia frustrazione quando al ritorno dal Tagikistan davanti ai magnifici paesaggi fotografati quasi non ricordavo di essere stata io a scattare quelle foto. E’ difficile appropriarsi dei luoghi senza viverli, senza avere il tempo di assaporarli ma solo vedendoli sfilare dai finestrini dell’auto che sfreccia via. Comunque ripartiamo lasciando Barnaul vista ieri mentre percorrevo a piedi la lunga Lenina…. mi avevano colpito poche cose tra le quali un paio di ampie pareti mosaicate, la prima vicina alla vecchia sede del KGB, dove tra una miriade di bandiere rosse sventolanti si scorgevano gli operai e la scritta tradottami poi da Sultan che inneggia un “ lavoratori di tutto il mondo unitevi”, e l’altra dal soggetto ben diverso posata su un volume del teatro aggettante verso un giardinetto. Partiamo sbuffando Sultan ed io ma poi addentrandoci nei boschi che ricoprono le pendici delle montagne della catena dell’Altai tutto sembra leggermente migliorare insieme al paesaggio. Lasciamo il simpatico e professionale Sultan alle due del pomeriggio alla stazione degli autobus di Biysk con una punta di dispiacere. Da qui proseguiamo soli puntando a Sud oltre Mayma, cercando di decifrare tra i cartelli stradali scritti in caratteri cirillici quello che ci porterà al lago Aia, racchiuso fra le montagne che si trovano pochi chilometri dopo un elastico ponte di legno. Arriva subito dopo il ponte la voce di Vanni, che assume note alte quando costretto a dire ciò che non vorrebbe, a rassicurarmi dicendo che se voglio ci fermeremo qui per la notte, attorno a questo piccolo lago circondato dai boschi. Attorno ad esso una serie di sentieri ben asfaltati distribuiscono casette di villeggiatura di recente costruzione…. è tutto nuovissimo e pulito e sembra di essere arrivati in Svizzera piuttosto che in Siberia. Con una certa difficoltà legata alla lingua otteniamo una camera standard cara a sangue nell’edificio vicino al lago che contiene anche l’amministrazione ed il ristorante del villaggio vacanze. Centinaia di turisti russi approfittano del lago per un giro in pedalone o prendono il sole stesi a gruppi sui prati che tappezzano l’apprezzabile centro. Mi stendo anch’io a godere della temperatura perfetta, unica nota dolente il fastidioso sottofondo musicale diffuso ovunque che comprende un discreto numero di brani della peggiore musica italiana…. ovvero tutti quei brani che Toto Cutugno non osa proporre in patria! Vanni intanto controlla l’olio di Asia cambiato un paio di giorni fa…. proprio non riesce a trovare interesse in nulla che non sia la sua adorata Toyota Land Cruiser. Alcuni falchi intanto volteggiano come da giorni nel cielo assolutamente azzurro, il laghetto in fondo non è male ed è divertente vedere come i russi adorino stendersi sul prato ad abbronzarsi raccolti in piccoli gruppi e canticchiare rilassati qualche parola in italiano delle terribili canzonette. Solo all’ora di cena scopriamo di essere in un all inclusive con cena a buffet sulla quale ci tuffiamo con gusto…. scegliere vedendo è decisamente meglio che trovarsi di fronte ad un menu incomprensibile pur con l’aiuto di un interprete. La cena finisce con l’allentare le tensioni e così ci addormentiamo finalmente sereni e vicinissimi.

05 Luglio 2010

LAGO AIA – KOSH AGACH

Ci svegliamo di ottimo umore e alle nove siamo già pronti per lasciare il laghetto percorrendo a ritroso il ponte oscillante di tavole di legno e poi la comoda M52 verso Sud che attraversa le ampie vallate incuneate tra un passo e l’altro. Il ricordo dei valichi sulla strada del Pamir in Tagikistan conquistati a quote ben oltre i 3000 metri attraverso strade sassose e ripidissime ci fa sembrare questi quasi impercettibili. I bassi edifici dei piccoli villaggi che incontriamo sono tutti di legno, i più datati mostrano sui prospetti i tronchi interi che ne costituiscono la struttura. Le finestre bordate di azzurro spiccano qua e là sui toni marroni del legno almeno quanto il verde brillante delle montagne dell’Altai che fanno da sfondo. Dapprima ricoperte di boschi di betulle e di abeti le montagne si spogliano salendo del loro manto lasciando scoperto il morbido movimento della loro orografia…. Quando al 712° chilometro ci fermiamo ad osservare un’ansa del fiume che si delinea all’incrocio fra due vallate Vanni scopre che abbiamo due fogli di balestra rotti sopra il pneumatico anteriore destro, questo spiega lo strano rumore di qualche giorno fa quando pensando di aver schiacciato qualcosa non avevamo dato troppo peso alla cosa. Tutto il peso di Asia grava ora sul solo foglio maestro che se dovesse cedere ci lascerebbe immobili e sbilenchi sulla strada. Preoccupatissimi procediamo molto lentamente fino a raggiungere il vicino centro abitato di Inia dove speriamo di trovare un’officina…. il vocabolario aperto sulla pagina relativa alle situazioni in auto, alla domanda “ dov’è l’officina più vicina “ che rivolgiamo ad una signora che passa per strada ci viene risposto che dovremo raggiungere la cittadina di Aktash ad un centinaio di chilometri da qui…. ma Vanni non si fa prendere dallo sconforto e vedendo un demolitore si incammina tornando poco dopo con un prestante signore dai lineamenti mongoli al quale mostra il problema….. è fatta! Mentre io mi allontano per scattare alcune foto all’ennesimo monumento a Lenin interessante soprattutto per il contrasto con le mucche stese alla base della statua, anzi stravaccate sul prato, loro due recuperano la vecchia balestra di un camion Volvo ed iniziano faticosamente a smontarne i fogli. Ora ci spostiamo tutti insieme, compresi i preziosi fogli, da un amico del giovanotto che inizia alacremente a lavorare sul pezzo. Siamo nel cuore di un quartiere del villaggio e dalle case iniziano ad arrivare alcuni curiosi stanchi di osservare dietro le tavole sconnesse degli steccati di legno. Il primo è un anziano signore ubriaco accompagnato dalla sua nipotina di non più di sette anni assolutamente decisa a fare di me la sua compagna di giochi nelle due di duro lavoro. Vanni esce soddisfattissimo dall’operazione…. è sempre un piacere per lui trovare persone che pur non essendo professionisti spocchiosi riescono con i pochi strumenti a disposizione a risolvere in poco tempo un problema piuttosto difficile. E’ contento anche che i due morsetti caricati l’anno scorso a bordo di Asia siano finalmente tornati utili per tenere uniti i fogli fino al montaggio definitivo. Sollevati del problema ma provati dal caldo torrido continuiamo la lunga discesa verso la Mongolia mentre attorno a noi ancora sfilano le montagne verdi sui bordi della vallata che seguiamo sulla strada serpeggiante. Verso Kosc Agach la vallata si spalanca poi in una piana dove il fiume che ci ha sempre seguiti si apre come in un piccolo delta formando laghetti e piccole aree vallive di una certa bellezza. Ancora oltre c’è la città, stesa sulla piana ora piuttosto brulla, formata da centinaia di baracche di legno. Forse per l’effetto favorevole della luce ormai bassa del sole alle nostre spalle trovo questo nucleo urbano piuttosto interessante compresi i due edifici pubblici adiacenti la piazza principale. Le ampie volumetrie rivestite di doghe di legno montate a spina di pesce e gli alti porticati su colonne azzurre che ne segnano gli ingressi principali sono rendono gli edifici piuttosto interessanti. Non manca la statua di Lenin a dominare in posizione centrale la piazza grande e desolata…. ma dove trovare un hotel? Hotel è una parola grossa per una città come Kosh Agach, ce ne rendiamo conto quando dopo aver seguito per un brevissimo tratto un taxi ci troviamo ad osservare perplessi le cinque brande sistemate sul perimetro di una camera desolante. La sorpresa piacevole della sosta presso l’affittacamere è invece l’incontro di una coppia di italiani arrivati fin qui in moto attraverso Mosca e Ulaan Baatar e che seguiranno da qui in senso inverso il nostro viaggio dell’anno scorso attraverso Kirgistan, Tagikistan ed Uzbekistan per poi spingersi fino in Sudafrica. Sono Anna e Fabio ( www.1bike2people4aid.it ) viaggiatori incalliti, cordiali e simpatici. Dopo aver parcheggiato Asia in cortile decidiamo di dormire in tenda ma usufruiremo del rubinetto della pensioncina per lavare almeno i denti. Mentre il lamento del muezzin si diffonde dal minareto della vicina moschea raggiungiamo insieme a loro ed a Wim, l’olandese volante che come loro viaggia in moto, una microscopica tavola calda dove la conversazione non riesce ad interrompersi sgorgando tra un boccone e l’altro senza sosta. Insalata, purea di patate, un formaggio acido e liquido tipico del luogo e due cosce di pollo è quanto offre la casa…. poi in tenda a dormire nella speranza di non aver bisogno del bagno.


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19 Mongolia


06 Luglio 2010

KOSH AGACH – OLGII

Stanchi per la lotta contro l’insonnia combattuta nel corso della notte in tenda ci congediamo di buon mattino da Anna e Fabio, scattiamo qualche foto agli edifici che definiscono la piazza principale controllati a vista dalla centrale statua di Lenin, poi partiamo diretti alla frontiera. Le montagne ci seguono a distanza fino al confine russo dove rimaniamo in paziente attesa insieme ai pochi altri viaggiatori del nostro scaglione…. dopo un primo controllo dei documenti infatti il cancello per proseguire agli uffici doganali viene aperto dopo trenta minuti circa. Sono soprattutto kazaki con voluminosi bagagli a mano in visita ai loro parenti rimasti ad occupare la regione Nord occidentale della Mongolia. Anche senza interprete ce la caviamo benissimo dato che alcuni impiegati parlano inglese ed i moduli da compilare sono tradotti in una lingua comprensibile….. certo sono tutti molto seriosi e vagamente ostili questi russi, mai un cordiale sorriso ad increspare le loro labbra …. che differenza rispetto ai mongoli che raggiungiamo poco dopo! Dopo aver compilato una miriade di moduli e schivato alcuni impiegati che volevano imporci di cambiare presso i loro sportelli i rubli rimasti ad un cambio sfavorevolissimo varchiamo finalmente dopo due ore la sbarra finale oltre la quale incontriamo Uchka, il nostro interprete mongolo. Sorridente, magro e molto giovane ci viene incontro con l’entusiasmo di chi ha aspettato il nostro arrivo per più di ventiquattrore, il tempo perduto nella riparazione della balestra ci ha fatto mancare l’appuntamento di ieri nel pomeriggio… poco dopo confessa che se non ci avesse visti arrivare nemmeno oggi domani mattina sarebbe partito per Ulaan Baatar nonostante gli accordi con Vanni fossero che avrebbe aspettato fino al 7 compreso. Lo avevamo immaginato abbastanza robusto da poter aiutare Vanni in un eventuale cambio pneumatico, invece Uchka è esile e delicato come chi ha trascorso la sua vita sui libri o davanti al computer…. ha 23 anni, potrebbe essere nostro figlio. Come annunciatoci da Anna e Fabio alle strade russe in ottime condizioni si sostituiscono presto le sterrate che qua e là si ramificano in dedali di piste che seguono talvolta direzioni diverse …. impossibile sapere quale sarà quella giusta se non affidandosi ai punti cardinali e sperare, oppure chiedere ai nomadi avvicinandosi alle gher nelle quali abitano, ma non troppo vicino. Anche se le recinzioni non esistono a delimitare un’area di pertinenza delle caratteristiche capanne circolari bianche nelle quali i nomadi asiatici vivono è buona educazione rimanere in posizione defilata anche per non essere attaccati dai loro cani da guardia dei quali Uchka ha una giustificata soggezione. Anche il paesaggio è cambiato e la catena dell’Altai, che avevamo vista connotare il territorio in immagini montane in senso stretto, con abbondante vegetazione e le alte cime innevate lontane all’orizzonte, si è via via ammorbidita ed ha perso completamente la vegetazione. I rilievi così scoperti mostrano quasi esibendola tutta la loro varietà orografica e cromatica….. sfumature in decine di verdi e di marroni si alternano in caleidoscopi che conquistano quasi come colature che dalla cima dei rilievi raggiungono le morbide ampie vallate sottostanti. Vediamo anche un gruppo di yak dal pelo lunghissimo e le immancabili gher a punteggiare di bianco le vallate, riunite talvolta in gruppi familiari…. alla tenda dei genitori si aggiungono spesso quelle dei figli sposati e così via. Ogni gruppo di yurte corrisponde ad una famiglia allargata ci spiega Uchka…. ma ciò che colpisce è la bellezza del paesaggio nel quale è come essere dentro una favola, o dentro un deserto policromo dove la sabbia è la terra resa policroma dai minerali e dall’erba fresca là dove il suolo lo consente. Questo paesaggio da sogno ci accompagna fino ad Olgii, la prima cittadina che incontriamo dopo il confine, ne vediamo le case e le gher bianchissime fin da lontano favoriti da una lieve altura che ce la mostra. La cittadina è là ad occupare la piccola parte di un’ampia vallata circondata da rilievi che si increspano in rocce scure o chiare…. è come se fossero qui riassunte tutte le varietà orografiche più accattivanti del pianeta. La morbidezza dei raccordi che come scivoli si adagiano nella vallata lo fanno assomigliare ad un deserto…. una sorta di Akakus libico fatto di picchi rocciosi che si innestano nella massa di sabbia sottostante, qui verde dell’erba che la ricopre. Olgii è una cittadina di montagna piuttosto alla buona ma con un’ ampia piazza centrale dominata da una piccola coloratissima stella rossa posta in cima ad un obelisco bianco. Gli edifici che vi si affacciano sono bassi e lontani mentre gli unici emergenti dal tessuto urbano sono i tre che contengono gli hotel disponibili, uno più devastato dell’altro naturalmente, compreso il Duman che favorito dalla Lonely Planet ha nella suite lusso un letto matrimoniale piccolissimo e trasuda squallore da ogni angolo….. bravissimi nel realizzare la loro abitazione tradizionale, la yurta, i mongoli sono invece piuttosto maldestri nel costruire qualsiasi altra cosa. Ben lontani dagli standard occidentali gli hotel che vediamo prima della scelta definitiva offrono pochi vantaggi rispetto alla nostra tenda sul tettuccio di Asia…. tra cui l’essere caldi ripari nelle notti fresche anche in piena estate ed avere talvolta un bagno ad uso esclusivo. La nostra lusso dell’hotel Bastau ha il bagno ritagliato in un angolo della camera e lo scaldabagno che ci fornirà acqua calda quando tra un’ora e mezza sarà a regime. Nell’attesa mi riposo mentre Vanni esce con Uchka a caccia di un paio di pantaloni. Quando li rivedo Vanni indossa un paio di pantaloni militari cinesissimi la cui linguetta della cerniera si rompe al primo colpo. Gli stanno benissimo però ed in mancanza di alternative vanno più che bene. Usciamo poco dopo per raggiungere il ristorante turco nel quale mangiamo discretamente…. ma niente birra, qui sono tutti musulmani!

07 Luglio 2010

OLGII – KHOVD

Il lettone del Bastau con la sua generosa imbottita ci ha fatto dormire benissimo ed alle otto quando la luce ha invaso la camera Vanni è sceso per la colazione mentre io mi sono riappisolata in vista dell’arrivo del tè verde fatto con le mie bustine parigine…. almeno per la colazione ci trattiamo bene! Partiamo dopo il necessario rifornimento di carburante ….. non incontrando centri abitati per centinaia di chilometri ma solo piccoli gruppi di gher, è meglio partire belli pieni. Lasciamo Olgii tranquilla come la avevamo lasciata e ci avviamo verso un’altra cittadina della Mongolia occidentale, Khovd che raggiungiamo a metà pomeriggio dopo aver viaggiato cinque ore sulle piste che attraversano ancora le meravigliose montagne dell’Altai, sempre magiche e particolari. Il cielo si copre a tratti di nuvole mantenendosi sempre parzialmente coperto, intanto il sole filtra dove riesce a bucare lo strato denso e grigio andando a colpire a casaccio brevi superfici inclinate. Una specie di marmotta attraversa la pista scappando dai falchi che volteggiano sempre più bassi, yak, cavalli, carcasse di animali morti ed una carovana di cammelli che hanno ormai interamente perduto il loro lungo pelo invernale e che si muovono in fila indiana senza accompagnatore. Incontriamo anche gruppi di nomadi che si muovono verso Khovd a dorso di cavallo portando con loro un seguito di ronzini che parteciperanno alla grande festa nazionale del Naadam, sacra per tutti i mongoli nomadi e non. La festa si animerà di competizioni in armonia con la tradizione guerriera mongola più antica come le corse di cavalli, le gare di lotta libera, sport nazionale, ed il tiro con l’arco. Quella che vedremo noi si svolgerà a Khovd il 9 ed il 10 prossimi. Alle tre del pomeriggio la cittadina ci accoglie desolata più che mai….. pochi brutti edifici si affacciano sulle strade deserte mentre la periferia è occupata dalle gher dei nomadi che spiazzati dalla moria di bestiame nel corso dello scorso inverno particolarmente rigido si sono avvicinati all’agglomerato urbano in cerca di qualche lavoro da fare. La camera lusso dell’hotel Buyant non è male rispetto a quella di ieri sera, spaziosissima e con un grande soggiorno ha le finiture che si può aspettare qui nel cuore della poverissima Mongolia ed ha anche le lenzuola sporche così come preannunciato dalla lettura delle caratteristiche su entrambe le nostre guide di viaggio, ma dopo averle fatte sostituire è perfetta. Passeggiamo brevemente fino alle antiche mura Manchu ormai quasi completamente disciolte nella periferia di questa città sempre più desolata e quasi apocalittica. Un salto al mercato coperto per acquistare frutta altrove introvabile e della farina e burro per Uchka che ha in mente una ricetta speciale. Dice che è impensabile poter mangiare lo stesso cibo dei nomadi quando ci fermeremo presso di loro a dormire in una gher, ma non capisco nemmeno cosa potrà fare con farina e burro. Per questa sera ci va bene, la cena nel ristorante dell’hotel è abbondante e squisita e poi a letto presto. Per una repentina variazione di programma domani andremo verso Nord a visitare il lago Uvs popolato da zanzare ed uccelli acquatici.

08 Luglio 2010

KHOVD – ULAANGOM

Ci svegliamo presto nella camera ora visibilmente squallida, accaldati dal sole che ci colpisce velato solo dalla tenda sottile alla finestra….. per continuare a dormire servirebbe una mascherina a tenuta stagna. Forse per questo nonostante gli incantevoli paesaggi mongoli attraversati finisco col desiderare ancora il deserto , e la nostra tenda sul tettuccio di Gazelle. Ma sto sbagliando atteggiamento, ne sono consapevole….. dovrei proseguire il nostro viaggio evitando la tentazione dei confronti con i luoghi che più ho amato. Il nostro desiderio di conoscere quanto più possibile il nostro pianeta andrebbe assecondato nel migliore dei modi, ovvero senza nostalgie. Questa mattina però mi viene da pensare con un certo trasporto all’Africa come meta piacevole a 360° …. l’Asia è difficile, soprattutto viaggiando nei paesi che fecero parte dell’Unione Sovietica la cui dittatura ha lasciato tracce profonde ancora visibili nei volti mesti delle popolazioni, persino talvolta nei mongoli che si distinguono tra gli altri per un buonumore endemico. Basta osservare dove vivono le persone per avere un calo di umore…. meglio una capanna allora, o una casa di fango piuttosto che due camere in un casermone grigio e fatiscente. Per quanto osservato fin qui la Mongolia continua a mixare la tipologia primitiva rappresentata dalla gher all’edificio triste…. speriamo che infine vinca la tradizione ! In questa splendida mattina di sole puntiamo verso Nord e come meditato ieri sera ci avventuriamo verso la cittadina di Ulaangom vicinissima al lago più grande della nazione…. l’Uvs Nuur. La pista si snoda attraverso incantevoli paesaggi montuosi che ci sorprendono con forme e colori sempre diversi, li osserviamo dalle ampie vallate che percorriamo sobbalzando apprezzandone le chiare morfologie ben visibili per la totale assenza di vegetazione …. proprio quello che preferisco! Si ha così una percezione precisa della conformazione del territorio, quasi come se stessimo sorvolandolo o ne osservassimo un modellino tridimensionale…. senza confusione i rilievi sfilano uno dopo l’altro, neri, verdi, rossi o chiari e talvolta si sommano in strane prospettive creando sorprendenti effetti di colore. E poi lo spazio enorme nel quale questi giganti sono calati ci restituisce il grande senso di libertà, vero obiettivo del nostro peregrinare….. siamo così felici ora che anche guadare un piccolo corso d’acqua diventa uno scherzo da ragazzi ed il procedere è così piacevole da ispirare Vanni in un pensiero che riporto – Asia si fa largo nel nulla seguendo passo dopo passo l’ombra sul terreno che la sua amica aquila, regina del cielo, le indica. – Questo angolo di mongolia è un vero schianto, che felicità! Le vallate verdi di erba fresca sono punteggiate qua e là delle tipiche capanne bianche e delle greggi di pecore e capre sempre inseparabili custodite da uomini a cavallo. Uchka ci spiega il motivo del particolare sodalizio recitando un detto mongolo …. – le capre hanno sempre freddo e le pecore offrono loro il tepore dei corpi nei gelidi inverni, per contro le pecore non sanno riconoscere l’erba più buona e così escono a pascolare in compagnia delle capre -. Abbiamo già percorso metà della strada in programma per oggi quando ci avviciniamo ad una gher isolata su un leggero pendio per verificare se non siamo finiti fuori strada…. Per sgranchirmi le gambe seguo Uchka verso la giovane sorridente signora uscita dalla gher incuriosita dal rumore dell’auto che ci invita a seguirla all’interno della sua dimora e ci offre una tazza del tradizionale tè salato al latte. L’interno è pulito e molto colorato, alcuni tappeti ricoprono l’impiantito di grosse assi di legno verde mentre gli elementi radiali che sostengono i feltri di lana nel perimetro sono arancioni così come il mobiletto opposto alla porta sul quale sono esposte alcune immagini religiose. I dettagli coloratissimi si stagliano sul bianco candido dell’involucro costituito da uno strato di feltri di lana protetti sia all’interno che all’esterno da tessuti bianchi impermeabili che garantiscono alla lana di rimanere asciutta e quindi di non emanare il caratteristico odore sgradevole e pungente quando bagnata. Rendono solidale il telo esterno tre grosse corde scure realizzate intrecciando il pelo di yak e fissate sulla parte cilindrica dell’involucro a circa trenta centimetri l’una dall’altra, proprio come nella yurta dove dormiremo questa notte nella periferia di Ulaangom, gentilmente messaci a disposizione dai simpatici parenti di Uchka. Per via della grande festa del Naadam che inizierà domani gli unici due alberghi della cittadina sono pieni ed avremo così finalmente l’opportunità di dormire in una di queste caratteristiche e piacevoli capanne, peccato che non si trovi sperduta in uno dei magnifici paesaggi attraversati oggi bensì all’interno di un recinto di legno che ne contiene tre. Di ritorno dal ristorante nel quale abbiamo cenato in compagnia della giovane coppia che ci ospita decidiamo di dormire nella nostra tenda su Asia dove cullati dal vento forte scivoliamo presto in un profondo sonno ristoratore.

09 Luglio 2010

ULAANGOM

Che caldo questa mattina ! Fuori dal nostro guscio rovente le tre gher riposano immobili, nessuno si è ancora svegliato. Impolverati come quando ci eravamo coricati scendiamo dalla tenda e con l’acqua di una bottiglia iniziamo a lavarci dopo un sopralluogo alla latrina stretta tra il recinto ed una porta di legno, due assi di legno divaricate sopra un buco nel terreno. Come possa questa gente vivere senza acqua corrente né fognature pur mostrandosi pulitissimi e felici rimane un mistero…. sono davvero bravi. Le due bottiglie di acqua che abbiamo a disposizione sono state acquistate da Vanni poco fa….. presso il pozzo che un signore ha monopolizzato costruendo la sua gher nelle immediate vicinanze. I compensi che pretende in cambio della fornitura non sono alti ma rimane il fatto che l’acqua dovrebbe essere un bene di tutti…. a maggior ragione qui dove la povertà è di casa…. Vanni lo ha trovato casualmente, seguendo il flusso di signore munite di secchi che si muoveva in processione in quella direzione. Fatto sta che dopo una sciacqua siamo pronti per andare alla festa del Naadam che si svolgerà nello stadio del paese verso il quale ci muoviamo a bordo di Asia in compagnia del giovane padrone di casa oggi vestito in abiti tradizionali ed il figlio che parteciperà alla gara di corsa con il cavallo…. uno scricciolo di dodici anni che ne dimostra la metà. Nonostante siano solo le nove lo stadio è già affollato …. le tribune di legno rivestite di persone a sedere circoscrivono il campo di erba alta nel quale sono stati montati alcuni ripari per la giuria. Intanto vicino all’ingresso gruppi di persone vestite negli abiti tradizionali caratteristici delle varie etnie si stanno organizzando in file regolari per sfilare lungo il perimetro del campo aprendo così ufficialmente i festeggiamenti. Signore dai copricapi appuntiti hanno i visi incorniciati dalle file di perline che oscillando lasciano intravedere i lineamenti orientali e le labbra colorate di rosso…. sono bellissime nei loro abiti ampi e colorati, e sorridono felici di essere state scelte a rappresentare la loro tribù. Accanto a loro i rappresentanti maschili vestono più sobriamente con camicioni lunghi fino ai polpacci legati in vita da fusciacche di seta arancioni o gialle, ai piedi indossano stivali enormi con leggeri disegni in rilievo…. non mancano i vigili del fuoco i vigili urbani ed i doganieri così come i campioni di lotta del passato che ormai anziani indossano vestaglie di seta decorate sul petto con numerose medaglie. Dopo un tempo imprecisato sono tutti pronti per sfilare fra l’erba alta…. ci sono anche le diverse corporazioni di lavoratori e c’è anche il cugino di Uchka che tiene alta la bandiera della banca nella quale lavora. Mentre il corteo è già tutto in movimento iniziano le gare di lotta libera, lo sport nazionale mongolo. I lottatori indossano pantaloncini aderenti ed un copri spalle a manica lunga il tutto raccordato da una corda legata sotto il petto. Alcuni di loro hanno l’aria di essere invincibili, grandi e muscolosi nonostante le pancette evidenti che debordano sotto la corda tirata…. altri hanno l’aria truce, ma poi tutti si librano in una armoniosa danza propiziatoria che simulando il volo di un uccello funge da saluto alle autorità…. sono bellissimi ! Le gare continuano tra la confusione del pubblico assolutamente indisciplinato che si muove vociante tra le bancarelle spuntate dietro le tribune che offrono in vendita di tutto, dai ravioli fritti alle bibite alle saponette … ci sono anche i bari che con i dadi scuciono denaro ai ragazzini che tentano ingenuamente la sorte. Raggiungiamo “casa” verso l’una… ci fermiamo solo il tempo sufficiente a caricare la moglie del cugino di Uchka ed i due neonati, poi con Asia piena di mongoli ci avventuriamo verso il lago seguendo una pista polverosa e trafficata. Stiamo andando a vedere la famosa corsa dei cavalli che ha svuotato la cittadina, ce ne rendiamo conto osservando le centinaia di auto parcheggiate che rivestono parte dell’ampio pendio nel quale si svolgerà la competizione, o meglio le diverse gare la cui precisa dinamica però ci sfugge… Ciò che salta all’occhio sono invece i cavalli che passeggiano ovunque mescolandosi a moto ed auto, e la folla che cerca di sottrarsi al sole rovente indossando cappellini, proteggendosi con ombrelli o cercando l’ombra delle auto. Parcheggiamo e ci ritroviamo presto al centro di un mare di auto, impossibile sottrarsi all’intera cerimonia ! Ci raggiungono intanto gli altri familiari che vivono nelle tre gher e che finiscono col colonizzare definitivamente Asia che se ne ritrova piena in ogni sua parte interna ed esterna, per non parlare del binocolo sequestrato senza appello da Uchka e suo cugino. Avevo letto sulla guida Polaris che i mongoli pur rispettando la proprietà privata non si fanno nessun problema ad usufruirne anche sfacciatamente…. è tutto vero! Arrivato il momento della gara alla quale parteciperà Munkhajargal ( felicità eterna ) il dodicenne di famiglia tutti scendono a guardare, compresi i neonati e la nonna che si portano sul limite della pista…. ed è il primo premio! Quando alle otto di sera rientriamo alle gher a bordo di Asia siamo in undici compresi i due neonati, la polvere fin dentro le orecchie ma felici per questa giornata davvero insolita, una sorta di tuffo nel folclore mongolo con la virtuale partecipazione al primo premio, La delusione arriva verso le nove, quando usciti per un giro di ricognizione in cerca di un ristorante troviamo tutti i portoni chiusi… troppo tardi? Oppure ancora tutti bloccati su alla corsa dei cavalli?…. districarsi da quel nodo di auto non deve essere stato facile per molti…. come per gli amici di Peter, un ragazzo belga che incontriamo solo soletto al pub e col quale condividiamo delle terribili tagliatelle precotte…. senz’altro di produzione cinese! La fortuna di Peter è stata quella di essere sceso dal lontano campo di gara con la sua moto senza troppi ostacoli, così come per noi avere avuto una sola auto davanti alla nostra. Quando rientriamo all’interno di una delle tre gher gli uomini festeggiano ancora il vincitore con vodka e la carne arrostita di un capretto sacrificato al momento…. cantano e ridono e quando la mattina mettiamo fuori il naso dalla nostra tenda nella quale ora dormiamo benissimo li vediamo gironzolare ancora ubriachi nel piccolo cortile.

10 Luglio 2010

ULAANGOM – BARUUNTURUUN

I nostri ospitanti sono già attivi in vista della premiazione di oggi quando lasciamo le gher salutando i pochi rimasti ovvero le donne e gli ubriachi naturalmente. Ma prima di lasciare la città Uchka ci chiede di accompagnarlo per una operazione che durerà solo pochi minuti…. così dopo aver acquistato le ultime due bottiglie d’acqua rimaste nel negozio torniamo là dove lo avevamo lasciato, lungo la strada nei pressi di una staccionata di assi di legno che segnano con il loro andamento continuo il bordo della strada… quando lo vediamo arrivare trafelato ci racconta che i parenti lo avevano posto di fronte alla scomoda scelta di pranzare con loro oppure bere una tazza di tè rovente…. insomma le trappole dei parenti si assomigliano in tutti i paesi. Partiamo infine prendendo la pista che inizia subito fuori città e che si spinge verso est avvicinandosi al lago Uvs che però non sfiora mai…. nonostante il labirinto di piste Uchka riesce sempre a trovare la giusta direzione nonostante non sia mai stato prima da queste parti…. consulterà segretamente una sfera di cristallo?…. io mi sarei persa decine di volte! Le pendici dei monti Altai ci accompagnano scure e lontane fino a scomparire inghiottite dalla steppa che ci regala ampi spazi, qualche duna di sabbia lontana e cammelli accovacciati a terra in cerca di un pò di fresco. Il cielo azzurro è impreziosito da qualche nuvoletta bianca, il caldo è torrido e la polvere tanta. Nei duecento chilometri percorsi oggi in sei ore di viaggio su piste piene di buche incontriamo solo due moto ed un’auto di locali che si muovono nella direzione opposta ed alcuni falchi in volo ma poi eccoli anche appostati ai bordi della pista così vicini da poter essere ammirati in ogni dettaglio così come la coppia di gru slanciate e grigie in compagnia dei loro piccoli. Seduto sul sedile posteriore Uchka canticchia ogni tanto melodie dolci con un filo di voce, poi verso le 16 arriviamo nel villaggio di Baruunturuun dove decidiamo di fermarci… continuare significherebbe percorrere ancora centotrenta chilometri di piste senz’altro malmesse per arrivare al prossimo villaggio chissà a che ora. Nonostante il villaggio non sia molto più che un pugno di case in mezzo alla steppa vi troviamo un affittacamere , il nostro rifugio per la notte. Il miraggio di una doccia finalmente dopo tanti giorni svanisce immediatamente dopo essere entrati nel cortile che fronteggia il vecchio edificio ad un solo piano, quando vedendo in un angolo il cabinotto della latrina capiamo che di acqua corrente non se ne parla nemmeno….. anche se ancora non puzziamo come capre una doccia inizio a sognarla la notte, anche solo per il conforto di sentire l’acqua scivolare sulla pelle… ma niente, anche questa volta useremo qualche salvietta umida. Il problema non è tanto l’assenza di acqua corrente quanto la mancanza di uno spazio privato dove spogliarsi e lavarsi integralmente anche con l’acqua minerale…. magari questa sera approfitterò dell’oscurità del cortile per farmi un bidet. La decisione di dormire anche questa notte in tenda arriva osservando le dimensioni dei letti della pensione, larghi non più di 60 cm…. ed anche Uchka preferisce piantare il suo igloo vicino alla nostra Asia, così tanto per dormire vicini…. Ci confessa di non aver quasi mai dormito solo e l’idea di esserlo questa notte, unico ospite della pensione, lo spaventa. Approfitto della sosta presto per fare un bucato di calzini nel catino arrugginito pieno dell’acqua verdastra del fiume che la signora riluttante mi porge lamentando che l’acqua costa e non va sprecata…. se il lavaggio senza troppi risciacqui mi impegna abbastanza l’asciugatura è una certezza considerando il vento che soffia costantemente da quando siamo entrati in Mongolia ed il sole che scalda molto qui a quota 1500 metri. Mangeremo ciò che la signora ha rimediato dopo una ricognizione in dispensa…. riso e spezzatino di magro di carne …. il grasso è finito dato che i mongoli ne sono ghiottissimi. Alla fine la carne è così dura che la usiamo come esca per attirare vicino a noi i falchi che ora volteggiano golosi poco oltre il cancello e che poi planano sul gustoso bottino… così ci siamo tolti il dubbio che i rapaci si nutrano di sole prede vive…. anche il manzo cotto e duro sembra andare benissimo!

11 Luglio 2010

BARUUNTURUUN – NOMROG

Poco dopo l’alba dopo esserci lavati con la poca acqua messa a disposizione tra una protesta e l’altra dalla padrona di casa partiamo verso Tes. E’ il primo villaggio che incontreremo fra 120 km molto prima di raggiungere il lago Telem in direzione Sud-Est, ambizioso obiettivo di oggi a 300 km da qui. Le vallate che attraversiamo offrono sempre scorci incantevoli e sempre diversi tra loro, come le creste rocciose che emergono lontane dalle ampie vallate in un particolare effetto acquerello tipo stampa cinese dove le cime più lontane sfumano semi nascoste dalla foschia. Un incanto che fa pensare al “Signore degli Anelli” e che percepiamo in tutta la sua estensione, come se noi piccoli esserini ci spostassimo dentro un grande modello tridimensionale della crosta terrestre con montagne molto ben modellate e colorate delle meravigliose sfumature dei minerali…. come se la perfezione che ci appare fosse difficilmente attribuibile alla realtà e piuttosto il risultato di un magico artificio…. e tutto senza aver fumato niente di strano! Dalle creste rocciose siamo poi passati alle dune di sabbia coperte da un leggero manto erboso, e poi sorpresa delle sorprese addirittura popolate da macchie di abeti. La pista come sempre disastrata ci fa arrivare a Tes dopo quattro ore di viaggio alla velocità media di 30 km/h. Una specie di conquista per noi che viaggiamo senza certezze avendo come unici riferimenti i rilievi che cerchiamo di far combaciare con quelli della carta stradale e la posizione del sole che ci offre un sicuro riferimento direzionale. Dopo Tes troviamo un cartello stradale, il primo qui fra le lande desolate della Mongolia … le tre frecce bianche su campo azzurro indicano direzioni diverse ma un cartello senza nomi a cosa può servire? A nulla. Continuiamo di tanto in tanto a chiedere indicazioni presso le gher dalle quali Uchka torna sempre sorridente…. in questi territori poco battuti dagli stranieri i nomadi mongoli svolgono con cortesia e disponibilità la funzione sostitutiva dei cartelli stradali! Dopo Tes il paesaggio cambia ancora e da sabbioso diventa verdissimo con enormi vallate ricoperte di erbe profumate e fiori selvatici colorati…. le montagne fanno da sfondo, sempre mutevoli e magnifiche. Sono per noi una novità invece i cumuli di pietre circondati da altre pietre disposte in cerchio che scorgiamo poco distanti dalla pista stagliarsi sul verde del prato…. sono le antiche tombe degli Unni ci spiega Uchka mentre la mente cerca di ripescare qualche ricordo dalle lontane lezioni di quinta elementare. La figura più esterna può variare dal cerchio al quadrato a seconda del ruolo militare di chi vi fu sepolto tra il II ed il I sec. a.c. Aquile e gru, cavalli e cammelli, capre e pecore per non parlare dei topolini che per sfuggire ai predatori vanno sempre di gran fretta…. insomma un viaggio nel paradiso anche oggi… ma poi la mancanza di una doccia da troppi giorni unita al raffreddore di Vanni finiscono con l’inquinare il buonumore e col far emergere tensioni stupide e fuori luogo…. ma come, siamo in paradiso e ci facciamo il muso? Quando arriviamo nel villaggio di Nomrog sono già le cinque del pomeriggio e Vanni guida senza soste da nove ore su scomode piste piene di buche…. siccome il lago Telem dista ancora 20 km ovvero circa un’ora di viaggio e da informazioni raccolte non offre strutture ricettive, decidiamo di fermarci qui, nel cortile di una pensione non migliore di quella di ieri ( Delgersaichan – 98100409 – 50991120 ). Un paio di litri d’acqua è tutto quello che abbiamo per lavarci in tre, nel cortile e senza la possibilità di spogliarci. Nonostante la calorosa ospitalità del padrone di casa Vanni è così di cattivo umore che non viene nemmeno a cena nella locanda dove io ed Uchka assaggiamo il piatto tipico, unica possibilità di nutrirci in questo villaggio poverissimo senza nemmeno l’energia elettrica. Sono tagliatelline preparate al momento e cotte nel sugo di carne di montone e patate, molto asciutte ma saporite e buone. Alle sette siamo già in tenda a cercare, ognuno a modo suo, un pò di conforto prima di dormire.

12 Agosto 2010

NOMROG – TERHIYN TSAGAAN NUUR

Dopo nemmeno una mezz’ora di viaggio vediamo prendere forma sulla nostra destra il lago Telmen la cui superficie blu segue il profilo delle basse montagne che lo definiscono …. ma poiché siamo appena partiti non abbiamo ancora maturato il bonus valido per una sosta presso il nostro inflessibile Vanni già proiettato nel raggiungimento di un altro lago a 300 km da qui, il lago Bianco come banalmente tradotto dalla difficile parola mongola Terhiyn Tsagaan nuur. I paesaggi sempre mutevoli nella costante montuosa ci sorprendono ancora per la loro bellezza come nel tratto compreso fra Tosontsengel ed il villaggio di Ih-Uul dove la vallata è segnata dal fiume che vi scorre aprendosi in diverse ramificazioni. Magnifici possenti abeti spuntano dal prato verde che si alza fino a rivestire le montagne circostanti mentre gruppi di yak dal lungo pelo che li fa assomigliare a mucche in abito da sera si spostano brucando parallelamente alle immancabili greggi di pecore e capre, altrove gruppi di cavalli selvatici improvvisano brevi galoppate verso i pendii assolati. Gli yak che vediamo impiegati come animali da traino legati a carretti di legno offrono lo spunto a Uchka per approfondire l’argomento, scopriamo così che con il loro pelo vengono confezionate le corde che trattengono i feltri di lana delle yurte ed i calzettoni impermeabili per l’inverno mentre la loro carne così come il latte non vengono commercializzati ma consumati dai pastori che li allevano. Il piacere del viaggio viene amplificato dal profumo intenso delle erbe aromatiche che rivestono la vallata e dalle aquile bellissime che volteggiano nel cielo…. che paradiso! Dopo Ih-Uul la strada verso Tsahir migliora in alcuni tratti sensibilmente consentendoci di procedere alla bella velocità di 60 km/h…. un vero record che consente a Vanni di inserire la quarta marcia per la prima volta dopo giorni. Sono già le sei del pomeriggio quando raggiunta Tsahir chiediamo indicazioni per raggiungere i campi gher turistici che si trovano sul lato Nord del lago Terhiyn Tsagaan. La punta Est si trova a 60 km da qui e se proseguissimo lungo la strada principale dovremmo poi tornare indietro di qualche chilometro puntando verso Nord dal villaggio di Tariat mentre la pista diretta ci consentirebbe di risparmiare un pò di strada…. ma finiamo col sbagliare pista perdendo circa un’ora solo in questo e solo dopo le sette riusciamo ad azzeccare la pista giusta che si rivelerà però un inferno. Buche con fango, valichi rocciosi, guado di profondi ruscelli e poi inizia a piovere mentre il cielo ormai all’imbrunire è praticamente buio. Sconfortata da tutto ciò e dalle dieci ore di viaggio mi sembra di vivere una situazione apocalittica…. la pista sempre più pericolosa ci riserva tonfi pazzeschi ed il rischio costante di affondare nel fango …. poi il profilo del lago finalmente raggiunto sembra snodarsi all’infinito seguendo la costa frastagliata, ce l’abbiamo quasi fatta! Sono già passate le otto di sera quando sotto il nubifragio raggiungiamo il Maikhan Tolgoi Tourist Camp ( Tel. +976 99119730, +976 99089730, +976 99093339, +976 99223334. www.terikhjuulchin-tours.mn info@terikhjuulchin-tours.mn ). Un ragazzo chiuso nel suo maxi kway afferra i nostri trolley e ci conduce di corsa alla gher. Sostenute dall’esile struttura di legno color arancio raccordata in alto da un profilo ad anello i teli di feltro di lana sono rivestiti sia all’esterno che all’interno da involucri di tessuto impermeabile bianchissimo. Tra i due pilastrini che sostengono l’anello trova spazio la stufa metallica che il ragazzo provvede ad accendere con qualche legnetto. I nostri letti sono sui due lati della stufa mentre sul fondo dell’ambiente circolare c’è un tavolino con due sgabelli. Mentre aspettiamo che la stufa faccia il suo dovere asciugando il nostro nido dall’umidità di questa serata uggiosa andiamo al ristorante del campo per la cena che inaspettatamente comprende una insalata mignon servita come antipasto …. una sorta di piccolo miracolo qui nel cuore della Mongolia dove la cultura nomade estremamente radicata prevede la totale dedizione all’allevamento del bestiame. La doccia che facciamo subito dopo la cena è un’altra piacevolissima coccola che ci godiamo con il sorriso sulle labbra, felici di esistere e di essere qui, al centro di quello che fu per un istante il grande impero di Gengis Khan. I guai arrivano poco dopo, quando Vanni cercando di riattivare il fuoco ormai estintosi nella stufa trasforma la nostra gher in una sauna soffocante …. abbiamo così l’immediata dimostrazione dell’efficacia di questa antica tipologia abitativa anche nei mesi invernali quando la temperatura esterna scende fino a 50° sotto lo zero. Impossibile resistere …. fuggiamo fuori, protetti dall’ombrello nella speranza che nessuno ci veda…. che ridere! Solo dopo un’oretta riusciamo ad infilarci nei nostri sacchi a pelo …. dormire fuori non è pensabile visto il numero di ragni con i quali condividiamo la nostra gher.

13 Luglio 2010

TERHIYN TSAGAAN NUUR

A compensare il lungo viaggio con sorpresa finale di ieri oggi rimaniamo nei paraggi spostandoci solo di un paio di chilometri verso Est, in un campo gher più spartano ma con una bella vista sul lago oggi risplendente al sole. Con sorpresa scorgiamo macchie di stelle alpine qui chiamate “montagna bianca”, sui prati del Parco Nazionale Tehriyn…. non le vedevo da 35 anni ed è un piacere ritrovarle su questi declivi incontaminati. Ma la vera attrazione del parco è il vulcano spento che vi spunta e verso il cui cratere saliamo attraverso il ripido sentiero oggi molto affollato di visitatori locali. Sembra quasi un percorso della speranza dato il numero di Ovoo carichi di offerte che incontriamo lungo la salita…. sono cumuli di sassi attorno ai quali è di buon auspicio compiere tre giri dopo aver gettato tre sassi di qualsiasi dimensione raccolti lì attorno….. ma poi ecco che proprio sulla cima del cratere ce n’è uno particolarmente grande contenente anche bastoni e sciarpe blu propiziatorie, biscotti e banconote inseriti nel cumulo di pietre e sassi che formano la montagnola sacra….. retaggio dell’antica cultura sciamanica non potevano mancare in questo luogo speciale per l’energia che vi si espresse secoli fa attraverso il magma sgorgante dalle profondità terrestri….. Conquistata la cima ripagano dello sforzo la bella vista sulla vallata e sul lago più oltre e poi le varietà di fiori selvatici e di piantine grasse di dimensioni infinitesimali aggrappate a gruppi sulle rocce laviche…. il tempo di caricarci anche noi dell’ energia del vulcano ed assistiamo ad una rissa tra ubriachi nel parcheggio dove raggiungiamo Asia. Sono tanti i mongoli che abbiamo visto finora ubriachi fradici fin dalla mattina ed ora un gruppetto di giovani barcollanti si affrontano a spintoni. Uchka invece non tocca l’alcol. E’ buddista come la maggior parte dei mongoli e questo oltre ad averlo reso una persona molto pacata e sensibile lo ha anche preservato dal cadere nella trappola della dipendenza da vodka, una vera piaga qui in Mongolia. Rientriamo al campo gher poco prima di un acquazzone che osserviamo dalle ampie vetrate del ristorante mentre facciamo progetti per il proseguimento del viaggio… In vista dell’arrivo di Gaia e Fabio che ci raggiungeranno fra qualche giorno per proseguire insieme attraverso il Gobi dovremo prenotare con un certo anticipo i campi gher se non vorremo rimanerne fuori…. è il tour più gettonato della Mongolia e nonostante la nostra riluttanza a calarci in questa nuova veste di viaggiatori super organizzati dovremo proprio cedere. Uchka spinge in questo senso con validi argomenti ed anche noi ci rendiamo conto che per offrire ai ragazzi le migliori strutture di accoglienza di cui dispone il mercato dagli standard anche molto bassi dovremo muoverci al più presto. Ma cosa sono questi quattro ossicini semi nascosti dalle carte geografiche sparse sul tavolo? Le avevo già notate qualche giorno fa ed ora pur di rimandare la pianificazione del tour chiedo delucidazioni ad Uchka…. sono caviglie di capre e si usano in diversi modi, per esempio per simulare una complessa corsa di cavalli o per prevedere il futuro. Per la sua particolare anatomia l’osso mostra quattro diverse figure sui lati di appoggio e così può essere letto come capra, pecora, cavallo o cammello. A seconda delle combinazioni che si hanno lanciando quattro ossicini si hanno vari gradi di fortuna… con un massimo per i quattro cavalli o per le quattro figure diverse. Trascorriamo il resto del pomeriggio a verificare quanto saremo fortunati lanciando gli ossicini sul tavolo di legno scuro, solo Vanni si sottrae…. perché mettere in discussione la sua assodata fortuna? Ceniamo come sempre prestissimo, non avendo voglia di fare una passeggiata a cavallo non rimane poi molto da fare se non osservare il già familiare paesaggio circostante e così ci tuffiamo presto sui piatti tipici che consistono in straccetti di carne ai peperoni serviti con riso lesso ed un brodo di carne con pezzetti di montone e tagliatelle di sola farina ed acqua cotte preventivamente a vapore…. gustosissime. Né frutta né verdure a parte i peperoni che come le patate fanno parte della dieta tradizionale mongola….. ci racconta Uchka che gli unici alimenti dei pastori nomadi sono la carne, il riso, il sale e l’acqua, questo giustifica l’alto livello di grassi nel loro sangue che li fa ammalare già verso i 30/40 anni. Se aggiungiamo alla cultura profondamente nomade la perplessità legittima relativamente ai prodotti alimentari che arrivano dalla Cina, ovvero tutta la frutta e la verdura che si può trovare per esempio nei mercati della capitale, salta fuori una dieta poverissima di fibre e di vitamine…. poveri mongoli! Quando dopo il tramonto ci ritiriamo per la partita a backgammon della buonanotte la luce non funziona ed è inutile farlo notare alla signorina che gestisce il campo perché dopo cinque minuti siamo di nuovo avvolti dalle tenebre….. del resto con i cavi appoggiati sul prato ed i fili a penzoloni ovunque è già un successo se non andiamo a fuoco per un corto circuito…. così come il cielo questa sera carico di stelle.

14 Luglio 2010

TSAGAAN NUUR – TSETSERLEG

Verifichiamo poco dopo il risveglio che al Tsagaan Camp non funziona nemmeno l’acqua corrente con conseguente impraticabilità dei bagni …. per nulla stupiti ci arrangiamo con i soliti mezzi di fortuna…. in fondo abbiamo fatto la doccia solo due giorni fa! Ma il bello arriva quando nonostante i disservizi del campo la signorina che lo gestisce pretende anche di essere pagata in dollari, 15 $ a testa per noi due turisti contro i 10.000 Tugrik per Uchka, l’equivalente di 5 $. Chiudiamo la faccenda dopo un breve battibecco pagando 45.000 Tugrik ma accollandoci per contro la presenza di una delle signorine del campo in auto per un passaggio fino a Tsetserleg. Conquistiamo il villaggio di Tariat dopo una decina di chilometri di guadi e sobbalzi sulle piste che sfiorano il lago, piene di insidiose rocce nascoste dal fango….. ma non è ancora nulla…. impieghiamo ben sei ore per coprire i 180 km che ci separano dall’obiettivo, sulle piste che si snodano terrose nel verde intenso della steppa come sinuosi serpenti che vediamo aggrovigliarsi lungo i lievi pendii o valicando le verdissime montagne senza alberi. Le gher sparse qua e là, solitarie ed immutate sono per noi l’equivalente dei desk informativi…. e poi capre, pecore cavalli e gli yak con il loro gonnellone di pelo vaporoso. Dopo tre ore la nostra ospite inizia ad innervosirsi lamentandosi con Uchka della nostra velocità da lumache…. se avesse preso un altro fuori strada a quest’ora avrebbe già raggiunto Tsetserleg dice ed anche un pulmino pubblico non impiega più di quattro ore per coprire la stessa distanza…. che stronza! Come se non pesasse anche a noi saltare in continuazione sulle buche di queste piste terribili che corrono parallele alla strada ancora in costruzione ed accessibile solo per bravi tratti di pochi chilometri! Nel primo pomeriggio raggiungiamo finalmente l’Hotel Zamchin di Tsetserleg dove la signorina scende senza salutare né tanto meno ringraziare. ….. immagino che non sia mai salita prima di oggi su un’auto ammortizzata con balestre per giunta rotte! Vanni si è accorto che abbiamo rotto tre fogli di balestra anche nell’anteriore sinistra, dev’essere stata la pista di qualche giorno fa …. quella da lacrime! Carichiamo il meccanico che casualmente si trova proprio di fianco all’hotel e andiamo al mercato a caccia di balestre originali anche se usate che però non troviamo…. desiderosa d’altro lascio il gruppetto e me ne vado a perlustrare la cittadina spoglia e desolata, ma che contiene un antico monastero buddista sopravvissuto indenne alle distruzioni staliniane. In fondo ai marciapiedi con buche lungo la strada principale raggiungo il cinquecentesco complesso monastico Zayain Gegeenii Sum ora adibito a museo dove prima di entrare mi imbatto in una anziana eccentrica signora hawayana che mi rimprovera per non essere ancora andata a visitare il paradiso terrestre nel quale vive…. ma ora sono qui ed entro affascinata dalla incantevole architettura dell’antico tempio. Sono soprattutto i preziosi dettagli a riportarmi alla Città Proibita di Pechino dove rimasi affascinata dai dettagli antropomorfi e dagli spioventi leggermente arricciati dei tetti. Serie di animaletti di dimensioni decrescenti sembrano scivolare anche qui verso il basso lungo le linee di displuvio…. sono piccoli cervi rivisitati con dettagli sospesi tra fantasia e realtà, così come i leoni dagli occhi troppo sporgenti collocati a coppie sui lati dell’ingresso o sparsi nel giardino. I tetti a pagoda estremamente elaborati esaltano con i colori gli elementi strutturali del tetto che finiscono col diventare forti elementi decorativi di “tetti scultura” così come i pannelli di legno intagliato a motivi floreali che costituiscono i fronti degli edifici. L’enfasi decorativa caratterizza ogni superficie e là dove non sono gli elementi scultorei ad esaltare gli elementi architettonici, sono i dipinti a descrivere ed a raccontare soggetti a me del tutto sconosciuti che proiettano in un mondo mitologico lontano così squisitamente orientale da incantarmi, così onirico ed intrigante da aver sempre suscitato un forte ascendente sugli artisti occidentali di ogni epoca. Peccato che il museo-tempio versi in uno stato di preoccupante degrado…. e che dire della cassiera che non parla una sola parola di inglese e che non ha nemmeno due spiccioli per il mio resto…. Apre il chiavistello di un portone intagliato e coloratissimo e mi fa entrare nelle sale del museo dove l’oggetto che più mi colpisce è una scacchiera dove gli alfieri sono dei cammelli ed i pedoni una fila di pecore. Dall’alto della collinetta retrostante che raggiungo percorrendo la lunga scalinata che conduce alla maestosa statua del Buddha in marmo bianco, vedo tutta la cittadina, comprese le numerose gher che adattatesi al disegno dell’urbanistica locale formano isolati disegnati come ricami sui leggeri pendii circostanti. Dopo un virtuale viaggio nel viaggio stimolato dalla torta al cioccolato consumata nella inglesissima Guest House Fairfield, raggiungo i miei prodi dal meccanico dove Vanni si mostra visibilmente soddisfatto del lavoro ormai agli sgoccioli. I fogli di balestra appena montati e fissati con il fil di ferro che appartenevano ad una vecchia Uaz, fanno di Asia sempre più un ibrido piuttosto che una Land Cruiser con leggera sofferenza di Vanni …. ma almeno potremo proseguire sereni fino ad Ulaan Bataar, dalla cui sede Toyota non arrivano però notizie incoraggianti…. ci sono prenotazioni fino a dicembre! Confidando sull’arguzia di Vanni sono certa che lasceremo la capitale con Asia in perfetta forma…. Intanto arriva un forte acquazzone a spegnere il calore intenso di oggi e si cena in hotel…. gli inglesi del Fairfield non accettano clienti dopo le 18…. peccato perché il menu comprendeva una serie di piatti a base di verdure che iniziano a mancarci terribilmente. Finiamo col mangiare le solite tagliatelle in brodo! Doccia calda dalle 20 alle 23 nel bagno del Gamchin in linea con il degrado generale dell’edificio …. in Mongolia l’acqua calda è razionata.

15 Luglio 2010

TSETSERLEG – ULAAN BAATAR

Colazione al Fairfield perché la cuoca dell’hotel non si è presentata all’appuntamento delle otto e poi si parte verso Karakorum, che non vedremo ora, e poi Ulaan Bataar che sono curiosissima di vedere per via dei pareri molto contrastanti raccolti finora qua e la. Circondati dal paesaggio verdissimo flesso in ondulazioni sempre più delicate ci troviamo proiettati in spazi senza confini che odorano di libertà infinita…. ed anche la strada migliora o meglio diventa percorribile, finalmente completata nel tratto che va da poco dopo la cittadina di Tuvshruuleh fino alla capitale, a parte una decina di chilometri di interruzione dopo il villaggio di Lun. Certo le yurte viste dalla strada asfaltata hanno un sapore diverso e ci appaiono quasi dissonanti rispetto al progresso che avanza con questa strada voluta e finanziata dalla Cina per avere un collegamento veloce con i mercati europei. Lontani ormai da giorni dagli affascinanti e selvaggi paesaggi della catena dell’Altai, non ci resta che tuffarci nell’enorme capitale che si mostra fin dalla periferia intasata di auto che si muovono lente in flussi disordinati. Non sembra particolarmente bella questa metropoli abitata da 1.200.000 mongoli, molti dei quali alloggiati nelle yurte che avvolgono il nocciolo edificato dai russi a partire dal 1924. Prima di allora la città popolata di nomadi si muoveva periodicamente spostandosi di qualche decina di chilometri alla ricerca di terreni più salubri e meno sfruttati. Un esordio davvero originale per una città! Raggiungiamo l’hotel Corporate dopo circa un’ora…. ospitato in un edificio di undici piani piuttosto modesto che non giustificano le sue cinque stelle ha invece gli interni all’altezza di un design hotel piuttosto sofisticato…. che meraviglia…. finalmente la doccia calda non sarà razionata! Le finestre della nostra camera al nono piano ci regalano una magnifica vista sulle montagne che circondano la città e sulle cui pendici la periferia si arrampica lontanissima con casette dai tetti colorati. Qui sotto invece c’è un vecchio isolato da riqualificare….. mi diverto a fotografarlo inosservata con zoomate invadenti che cercano di coglierne il fascino decadente ma che per Vanni hanno piuttosto il sapore del disastro, una sorta di Hiroshima dopo l’atomica, dice. Un commento in linea con il suo umore ora teso e nervoso….. da qualche giorno tende a fissarsi su cose assurde come la “tartare di carne” che vuole avere a tutti i costi anche se non contemplata dal ricco menu del ristorante dell’hotel dove invece mangiamo benissimo e con molte verdure nel piatto!

16 Luglio 2010

ULAAN BAATAR

Mi sveglio sola nel lettone largo più di due metri….. Vanni è partito presto con Uchka per la missione Toyota ed io ho una gran voglia di esplorare la città ancora avvolta nel mistero. Armata dell’inseparabile macchina fotografica mi avvio con entusiasmo verso la vicina piazza principale mescolandomi tra la vivace folla, chiassosa e indisciplinata quanto gli autisti che puntano i pedoni sulle strisce come se fossero birilli…. tanto vale attraversare ovunque ed in gran fretta…. è chiaro fin dal primo incrocio che i pedoni qui non godono di diritti di precedenza ed anzi sembrano i bersagli preferiti degli automobilisti anche se sobri! Raggiungo indenne la grande piazza circondata da edifici troppo bassi alcuni dei quali disegnati nei preziosi geometrismi del razionalismo ed altri nell’immancabile stile neoclassico di regime. Proporzionati alle dimensioni della piazza sono l’enorme statua in bronzo di Gengis Khan ospitata in una nicchia del palazzo presidenziale vagamente postmoderno ed il bellissimo grattacielo a forma di vela, leggermente defilato ma che caratterizza la skyline del centro urbano…. una sorta di tour Eiffel mongola di grande impatto. Dopo aver girovagato un pò la sensazione è quella di essere in una città non bella ma che contiene delle belle cose come i favolosi lampioni anni ’70 che seguono i marciapiedi di alcune strade, o l’edificio del Palazzo della Cultura con la sua perfetta scansione di pilastri trapezoidali e perché non la piccola torre scatolare sulla cui superficie giganteggia una bottiglia di coca cola rossa con le relative bollicine. Anche il vicino Museo Nazionale di Storia Mongola è ospitato in un bell’edificio di stampo sovietico razionalista…. un compatto parallelepipedo di mattoni con grandi riquadri di pietra bianca che ospitano bassorilievi tematici. All’interno le vetrinette riflettenti ed illuminate con tubi al neon ospitano gli abiti tradizionali delle numerose tribù mongole…. alcuni abiti femminili hanno elaboratissimi colletti che si alzano rigidi sopra la testa, altri hanno maniche così lunghe da sfiorare il ginocchio. Sono tutti molto belli così come i curiosi copricapo ed i gioielli…. c’ è anche il guanto che indossò l’unico cosmonauta mongolo della storia! Quando verso sera Vanni rientra nella nostra confortevole camera mi parla delle peripezie affrontate per sostituire le balestre di Asia presso l’affollata sede Toyota. Una volta capito che seguendo il normale iter avremmo lasciato U. B. fra sei mesi, Vanni ha raccontato al direttore della sede che Asia era attesa alla casa madre in Giappone per un reportage fotografico in quanto auto storica con una bella storia di viaggi alle spalle…. che genio! Domani mattina Asia sarà pronta con i suoi fogli di balestra originali montati così come le sospensioni ed i blister dei quali non c’è più traccia dopo le dure piste mongole e lo Svaneti della Giorgia! Dovrebbe essere contento e invece no…. è stato tutto il giorno in piedi ad aspettare e controllando il lavoro si è accorto che stavano montando i fogli di balestra a rovescio…. tutte le tensioni esplodono infine al ristorante dell’hotel di fronte alla tartare che chiede anche questa sera porgendo alla cameriera il foglietto che gli ho tradotto in inglese. Ma ecco che quando la tanto agognata tartare gli viene servita non va ancora bene e la rispedisce indietro perché tagliata troppo grossa…. In seguito allo spiacevole alterco che ne scaturisce la decisione è presa, partirò con il primo volo disponibile per l’Italia ….. inutile il suo tentativo di riconciliazione, con lui ho chiuso!

23 Gennaio 2008

ULAAN BAATAR

Inutile dire che al risveglio sono ancora furiosa ma poi, improvvisamente carinissimo, Vanni finisce col sedare in parte le mie serie perplessità sul continuare questo viaggio insieme. Risolve del tutto la disarmonia che ancora sento la visita al meraviglioso monastero Choijin Lama, vicinissimo all’hotel. Costruito nel cuore pulsante della città in stile cinese tra il 1904 ed il 1908, vi si cala come un angolo di paradiso, con i suoi cinque templi a pagoda immersi nella vegetazione, coloratissimi all’interno ed armoniosi all’esterno, con i tetti arricciati verso l’alto ed i numerosi piccoli animali sulle falde. Una serie di grandi sculture di cartapesta rappresentano le divinità buddiste con occhi sporgenti e corone di teschietti sulle grandi teste. Numerosi Buddha dorati riflettono la luce degli interni mentre affreschi così macabri da divertire decorano le volte descrivendo le pene dei dannati…. in fondo tutte le religioni si assomigliano! Rimango all’interno del tempio principale abbastanza a lungo da sentire il suono lieve delle campane mosse dal vento ed il canto di un musicista che accompagna il suono del suo liuto con suoni gutturali …. insomma mi riprendo perfettamente coccolata dalla bellezza e dall’armonia di questo luogo così lontano dalla città frenetica nel quale è inserito. Questa sera cambiamo menu e ristorante…. ormai riappacificati gustiamo le ottime pietanza del ristorante “La Veranda”, luogo piacevolissimo anche per la vicinanza al bellissimo monastero Choijin Lama che continua ad emanare i suoi balsamici effetti fino ai nostri comodi divani rossi.

18 Luglio 2010

ULAAN BAATAR

E’ domenica oggi e quindi Vanni non lavora. Un salto al vicino teatro per l’acquisto dei biglietti dello spettacolo di questa sera poi in taxi, quello regolare chiamato dall’hotel perché gli altri dicono possano riservare spiacevolissime sorprese, raggiungiamo il monastero Gandan Khiid…. uno dei più importanti della Mongolia …. scopriamo presto il perché. L’imponente edificio principale ha i muri chiari leggermente strombati alla maniera tibetana ed accoglie al suo interno una meravigliosa scultura dorata alta 26 metri, quanto l’intero edificio. Ipnotizzati dalla bellezza dell’armonioso colosso che incarna il Buddha della felicità seguiamo il flusso dei fedeli in preghiera che si muovono in senso orario lungo il circuito perimetrale. Sui due lati dello stretto passaggio trovano posto centinaia di cilindri di ottone che i fedeli fanno ruotare pregando, l’atmosfera è piuttosto suggestiva ed il Dio della felicità perfetta che ammiriamo da ogni angolazione possibile è assolutamente super. I cilindri ruotano anche all’esterno del tempio dove raccolti in strutture di legno, i mulini di preghiera, emettono lievi fruscii mentre espandono l’energia nell’universo intero…. il segreto è nel loro contenuto. Al loro interno infatti trovano posto i testi sacri scritti in lingua tibetana e quindi incomprensibili ai mongoli…. la rotazione dei mulini di legno espande però simbolicamente nell’aria la preghiera che i testi contengono e che i mongoli non potrebbero mai recitare…. comodo no?…. così tutti possono pregare, muti ed analfabeti compresi. Ancora attorno al tempio si trovano gli Stupa, i piccoli templi sacri ai quali fare riferimento per le preghiere, talvolta colorati e con immagini dipinte tratte dall’iconografia buddista. C’è un gran fermento di fedeli oggi ed i cilindri di ottone continuamente ruotati diffondono un brusio leggero che è come una carezza. Gli echi del tempio si sviluppano sui lati della strada che scende verso il centro della città dove in bassi edifici sgangherati vi sono i guaritori e le farmacie alternative legate alle pratiche sciamaniche e buddiste che convivono in armonia completandosi a vicenda. Camminando lungo le lame d’ombra aderenti gli edifici raggiungiamo il Museo di Scienze Naturali famoso per gli scheletri dei dinosauri e le loro uova ritrovate nel deserto del Gobi, poi è già l’ora dello spettacolo di musica e danze tradizionali al Teatro d’arte drammatica che si trova nei pressi dell’hotel…. L’edificio è in stile neoclassico con elementi architettonici in rilievo che emergono bianchi sull’intonaco rosso, vi assistiamo ad uno spettacolo appassionante fin dalle prime note emesse dal famoso liuto mongolo partorito da una cultura che ha sempre considerato il canto e la musica come fondamentali nella vita di ognuno fino a raggiungere i virtuosismi che stiamo ascoltando. Note profonde e gutturali si mescolano alle melodie degli strumenti in armonioso duetto mentre i cantori ed i musicisti solisti sfoggiano oltre alle voci strepitose anche gli abiti tradizionali che ci appaiono come delle piccole opere d’arte…. peccato che il pubblico prevalentemente mongolo quindi indisciplinato e cagnarone abbia finito col distrarci con vocii insistenti e fuori luogo…. ma poi scopriamo che la signora che non ha mai smesso di parlare per tutto lo spettacolo è americana…. che dire! La giornata non è ancora finita…. Uchka arriva puntuale alla fine dello spettacolo per condurci a cena in un ristorante che sarà una sorpresa e dove arriverà anche la moglie che abbiamo invitato, ma poi quando arriviamo al Mongol Hotel, un complesso turistico realizzato sulla falsariga dell’antica Karakorum, con la moglie arriva tutta la famiglia. Persone squisite con le quali trascorriamo una serata piacevolissima nel ristorante nuovo e semi deserto che propone piatti di cucina internazionale, cinese e mongola. La serata termina con una serie di regali che ci vengono consegnati dalla madre di Uchka come da tradizione…. una bottiglia di vodka, due confezioni di tè nero da frantumare nel mortaio, un sacchetto di formaggio secco perché il latte è un alimento sacro della cultura nomade ed un borsellino di pelle che contiene tutte le banconote di piccolo taglio come portafortuna…. sono stati davvero carini!

19 Luglio 2010

LA PARTENZA DALL’ITALIA DI FABIO E GAIA:

Ferrara ore 8.30, prendo lo zaino e mi incammino verso casa di Gaia dove mi aspettano lei e la Lella che ci accompagnerà all’aeroporto di Venezia, direzione Ulaan Baatar !!
Sono emozionato ma soprattutto curioso di cosa mi aspetterà nei giorni seguenti, per me è la prima volta che faccio un viaggio così lungo in aereo e che vado in una parte del mondo così lontana dalla mia terra cui sono molto legato. Arriviamo finalmente all’aeroporto, salutiamo la Lella ed andiamo verso l’entrata, finalmente facciamo il check in, imbarchiamo le valigie e Gaia non fa altro che ripetere – speriamo che le nostre valigie arrivino ad Ulaan Baatar!- io le dico di stare tranquilla che tanto non ci sarebbero stati problemi. Andiamo a mangiare un trancio di pizza, facciamo un giretto e ci imbarchiamo per Mosca dove è previsto lo scalo per fare il cambio di aereo. Il viaggio in aereo è andato abbastanza bene ma ci servono un pranzo disgustoso….. pollo e pasta con verdurine. Lo si mangia perché si ha fame poi io crollo in un sonno profondo e mi sveglio quando stiamo per arrivare a Mosca. Una volta scesi siamo obbligati a rimanere all’interno dell’aeroporto che tra l’altro è immenso, passiamo una specie di frontiera e andiamo verso la nostra uscita per imbarcarci per Ulaan Baatar. Tempo che Gaia fumi una sigaretta io mi bevo una birra e aspettiamo per l’imbarco in ritardo di trenta minuti. Gaia sempre in pensiero per le nostre valigie, finalmente partiamo. Ci servono la cena questa volta ottima, uno spezzatino con della pasta. Ci prendiamo anche due bottiglie di vino in più, Gaia mangia anche il dolce che dice essere stato molto buono. Tutti e due visto che fuori c’è buio e non c’è nessun panorama da osservare crolliamo nuovamente nel sonno e ci svegliamo alle 6.30 della mattina quando con l’aereo siamo sopra il territorio mongolo. Noi siamo seduti nella corsia centrale e allunghiamo la testa per vedere il paesaggio fuori dai finestrini…. siamo riusciti ad intravedere delle montagne e verdi praterie, non facciamo che dire – che bello!-

19 Luglio 2010

ULAAN BAATAR

Sono arrivati i ragazzi! Quando rientrando dall’aeroporto Vanni mi sveglia è felicissimo nonostante la stanchezza per la sveglia prestissimo…. la prospettiva della condivisione con loro di una parte del nostro viaggio dà ad entrambi una sferzata di energia ed anche di leggera responsabilità nel proposito di farli stare bene e di mostrare loro il meglio di questa città il cui primo impatto non è proprio di grande effetto. E’ così che dopo la gioia di un bell’abbraccio ed una mezz’ora spesa per un’ abbondante colazione in hotel esco con loro per una visita al monastero Gandam Khiid oggi decisamente meno affollato. Dopo aver baipassato il tentativo di imbroglio del taxista pur regolare che a metà strada ha azzerato il tassametro per giustificare una tariffa arbitraria, ci avviamo verso l’imponente tempio con doppia copertura a pagoda in stile tibetano, sempre quello che contiene la grande statua di Megjid Janraiseg il “Dio che guarda ovunque” ospitato nel “monastero della felicità perfetta”, il cui corpo in acciaio e rame rivestito da una bella doratura rilucente che lo avvolge, dovrebbe contenere al suo interno gemme preziose e gli immancabili testi sacri. I cilindri della preghiera frullano un pò meno oggi, ma riusciamo finalmente a vedere qualche monaco. Vestiti del tradizionale abito rosso due file di monaci bambini occupano i lati di un piccolo tempio adiacente, recitano litanie mentre suonano piatti di ottone e trombe…. non sembrano molto convinti di ciò che fanno proprio come i loro colleghi adulti che si distraggono presto con le bottigliette di aranciata che sono state loro donate da un fedele. Manca il suggestivo pathos che avevo percepito nei templi buddisti in Cina, ma forse si trattava allora di attori ben pagati dal governo comunista nell’intento di offrire ai turisti una visione distorta del paese…. comunque va detto che recitavano davvero bene! Immersi nella canicola del mezzogiorno riconquistiamo l’hotel con una bella passeggiata e mentre i ragazzi svengono sul loro lettone sfiniti dalla stanchezza io accompagno Vanni ed Uchka al mercato dell’auto per recuperare alcune viti e l’olio…. è come entrare in un girone dell’inferno non privo di un certo fascino dove centinaia di continers distribuiti a casaccio in un grande piazzale offrono in vendita parti di auto demolite ….. vi si trova di tutto …. dai motori alle marmitte, dai volanti alle immancabili balestre… Vanni visibilmente conquistato da tanta abbondanza e felice di essere nel suo elemento si perde ad osservare cercando ciò che gli serve …. due viti particolarissime che infine trova. Fa da sfondo alla nostra prima serata insieme la terrazza del ristorante “La Veranda” dove godiamo del buon cibo e del tepore piacevolissimo di questa serata…. per la prima volta stiamo bene in maglietta anche dopo il tramonto.

19 Luglio 2010

L’ARRIVO A ULAAN BAATAR DI FABIO E GAIA:

Qui in Mongolia ci sono sei ore in più rispetto all’Italia, quindi siamo atterrati alle sette. Andiamo a prendere le valigie dopo aver compilato i moduli dei quali non sapevamo nulla e per i quali ci siamo fatti riprendere dai poliziotti alla frontiera dell’aeroporto…. avevamo troppa voglia di scoprire la Mongolia! Andiamo a prendere i bagagli ma l’unico nastro trasportatore ha almeno vent’anni ed è vecchissimo, è così che mi fingo un impiegato dell’aeroporto spostando i bagagli che si incastrano e impediscono lo scorrimento di quelli che li precedono. Morale? …. solo la valigia di Gaia non è arrivata!! E’ disperata poverina, infatti quando usciti dall’aeroporto c’è Vanni ad accoglierci ( si vede che è contentissimo ) Gaia scoppia in lacrime mentre Vanni la incoraggia…. domani dovremo tornare a recuperarla.

30 Gennaio 2008

ULAAN BAATAR

Consumiamo la giornata girovagando per la città a caccia di souvenir che però non soddisfano nessuno di noi per la loro scarsa qualità, probabilmente made in China. Persino le famose scarpe da ginnastica All Star non hanno lo stesso look di quelle che si trovano sul mercato italiano…. ma29 anche il prezzo è decisamente diverso. Rientriamo con un magro bottino cui fa eccezione il bel poncho di cachemire che avevo adocchiato nel foyer del teatro e che indossato da Gaia fa la sua bella figura. Di vedere lo spettacolo folcloristico i ragazzi non ne hanno proprio voglia e poi viene loro incontro il black-out che costringe il numeroso pubblico in attesa sotto il porticato dalle alte colonne…. ceniamo benissimo al Bistrò Francais dove l’ambiente avvolgente e rilassante ci fa sentire come a Parigi.

21 Luglio 2010

ULAAN BAATAR – BAGA GADZRIN

E’ sempre con una leggera sofferenza che si lasciano hotel confortevoli nella prospettiva di sistemazioni spartane al limite della decenza ma il richiamo del deserto del Gobi è forte e l’entusiasmo di tutti noi alle stelle. Usciamo dalla capitale seguendo la strada dell’aeroporto finché all’asfalto si sostituisce l’avventura delle verdi montagne che affrontiamo questa volta con l’aiuto del GPS di Uchka e dei suoi vaghi ricordi. Non deve essere semplice destreggiarsi fra le numerose piste che si sviluppano come un reticolo sul territorio, né scegliere fra due possibilità ad un bivio quando gli unici riferimenti sono i punti cardinali suggeriti dalla posizione del sole, ma a volte Uchka sembra non essere mai stato qui. L’entusiasmo dei ragazzi di fronte ai paesaggi mai visti si mescola alle incertezze di Uchka smorzando le tensioni che immancabilmente ne derivano, e così dopo diverse soste fatte per ammirare qualche vallata particolarmente bella così come le lontane yurte e gli Ovoo rituali attorno ai quali anche noi ruotiamo tre volte lanciando i tre sassolini come vuole la tradizione, troviamo infine la pista giusta con l’aiuto delle indicazione dei rari personaggi che incontriamo avvicinandoci alle loro gher. Ci fermiamo anche quando Gaia con un grido di entusiasmo ci fa capire che quelli la fuori sono i primi cammelli della sua vita….. in compagnia della sua Nikon sempre pronta allo scatto dà sfogo alla necessità di fissare le immagini che diventeranno i suoi ricordi…. forte di questa complicità approfitto anch’io dell’improvvisa grande disponibilità di Vanni alle lunghe soste per i nostri safari fotografici per immortalare le mandrie di cavalli al galoppo e le decine di falchi in volo o immobili in attesa fra i ciuffi d’erba, così come le greggi di capre seguite dai mandriani a cavallo che rappresentano, oltre ai bellissimi paesaggi, gli aspetti più insoliti e suggestivi del nostro viaggio di oggi che sembra non avere mai fine su queste piste che percorriamo per otto ore a coprire solo 270 km. Quando infine arriviamo al nostro campo gher è già metà pomeriggio ed il calore è ancora fortissimo…. l’assenza della stufa per ovvi motivi suona per noi come la garanzia di non dover dormire fuori cedendo alla curiosità di vederla accesa… non si sa mai! Manca ancora la ciliegina sulla torta, rappresentata dalla particolare formazione di roccia granitica vista dipinta nella sala ristorante… la raggiungiamo puntando la prua sull’unica montagna visibile, ancora inseguendo piste dentellate nell’ampio territorio che ci contiene come piccole formiche. Il profumo intenso delle erbe aromatiche che ricoprono la vallata entra a solleticare il nostro olfatto, poi quando ormai la lunga montagna è stata raggiunta e percorsa quasi interamente a valle, Uchka dice che dobbiamo fermarci….. chissà cosa ha riconosciuto …. Ci arrampichiamo per un breve tratto sulle rocce arrotondate dall’erosione fino a raggiungere un piccolo Ovoo, poi ecco la sorpresa che arriva come un colpo di scena. Spostando una piccola pietra quadrata Uchka rende visibile un foro nascosto sulla superficie orizzontale della roccia, e calando un bicchierino fissato in fondo ad un bastone ci porge l’acqua della quale ora è pieno…. ma non è ancora finita ….. al mistero della presenza di quest’acqua dentro la roccia si aggiunge quello dei suoi poteri curativi…. sembra infatti che possa guarire dalle malattie agli occhi…. Ci sottoponiamo al rito bagnando gli occhi con il magico liquido che per quanto ne sappiamo potrebbe essere stato infettato attraverso il bicchierino da qualche malato che lo abbia toccato…. poi andiamo oltre fino a raggiungere un edificio diroccato immerso in una formazione rocciosa da favola dove il granito modellato dall’erosione si mostra in forme bitorzolute variamente sagomate che si alzano dallo zoccolo compatto. Il piccolo edificio del quale rimane ben poco fu usato come monastero da due monaci che vi abitarono oltre un secolo fa…. ed ora sembra piuttosto disturbare la perfezione di forme di questo luogo disseminato di piccoli Ovoo che si stagliano contro il cielo, manufatti che quasi si confondono con le protuberanze naturali modellate dal vento nel corso dei millenni. Rientriamo al campo gher Erdene – Ukhaa ( Lo 105°52’23” – La 46°16’55” ) ancora immerso nel calore…. ma non ci appare così bello come Uchka lo aveva descritto per convincerci ad andare… uffa!

22 Luglio 2010

BAGA GADZRIN – TSAGAAN SUVRAGA

La sveglia suona per tutti alle 6.30 come deciso da Vanni, solo io vengo miracolosamente risparmiata fino alle 8 quando i ragazzi spazientiti gli chiedono cosa stia aspettando a buttarmi giù dal letto. Puntiamo decisamente verso Mandalgovi dove ci fermiamo per un paio di saldature ai supporti della tenda fissata sul tettuccio di Asia. Raggiuntala vediamo una cittadina polverosa e senza attrattive se non questa officina a cielo aperto dove sotto il sole cocente un giovane fabbro si presta ad eseguire il lavoro…. ormai è un classico che i supporti della tenda si rompano e dopo l’avventura del Sahara che ci ha visti ricorrere ad una corda per fissare il guscio al portapacchi di Gazelle è ora il turno di Asia che dopo migliaia di chilometri di buche ed effetto greder ha infine ceduto. Che caldo…. la temperatura aumenta fino a sfiorare i 40°C quando pronti per ripartire puntiamo la nostra prua verso Sud. Siamo sulla pista principale segnata in rosso sulla carta stradale, niente più falchi o capre a rompere la monotonia del viaggio, ma gruppi di cammelli che sempre più numerosi ci introducono al deserto del Gobi nel quale ci caliamo pian piano fino a trovarci in spazi senza più limiti visibili….. nel nulla cosmico come ama chiamarlo Vanni, modulato nelle sfumature dei gialli, dell’avorio e del verde impolverato della vegetazione che riesce a sopravvivere nonostante la lunga siccità estiva. Gaia intanto accusa i sintomi di una brutta infezione intestinale che l’ha messa ko…. il calore, la polvere ed i disagi del viaggio non l’aiutano certo a riprendersi, così approfittiamo dell’ennesima indecisione di Uchka per spingerci fino al villaggio di Tsogt Ovoo a caccia di una farmacia. Sono già le 17.45 quando finalmente la troviamo e noi tutti praticamente disintegrati per le otto ore di viaggio nel caldo torrido….. ne usciamo con un bel bottino di medicine ed un ubriaco molesto attaccato alla portiera aperta posteriore lato Uchka. Non molla la presa nemmeno quando Vanni esasperato affonda il piede sull’acceleratore balzando in avanti per un paio di metri…. l’ubriaco ora urlante è ancora lì attaccato e vuole da noi una bottiglia di birra. A nulla valgono i 1000 T che gli mettiamo in mano, gli occhi vitrei, pretende una bottiglia. Uchka completamente bloccato non reagisce….. è Vanni a scendere. Lo afferra per un braccio allontanandolo da Asia, gli mette in mano i 1000 T e ripartiamo ancora agitati per l’incidente. Qualche nuvola scura ci regala una piacevole ombra nei 17 km che ci separano dal campo, modulando la distesa leggermente ondulata in accenni di dune con complicazioni cromatiche davvero accattivanti. Ogni tanto i pneumatici affondano nella sabbia regalandoci sprazzi di emozioni passate, altre volte salgono arrampicandosi in improvvisi rilievi dei quali nemmeno ci eravamo accorti. Infine arriviamo nel campo gher del quale Uchka ci aveva parlato come del peggiore di tutto il tour del Gobi…. sarà perché è immerso in questo nulla che a noi piace da impazzire o per la squisita ospitalità dei proprietari ….. così come per la pulizia impeccabile dei bagni e delle lenzuola…. rappresentando per noi l’obiettivo finalmente raggiunto dopo nove ore di viaggio faticoso, siamo felicissimi di essere qui al “Gobi Stupa” ( tel. 9959 8466 – 9959 8592 – 9583 9953. 44°34‘29.9”N 105°38‘44.6”E ). Anche Gaia sta meglio dopo il giro in cammello e la doccia fatta con un filo d’acqua….. la cuoca ci delizia poi con una cena squisita che vede l’immancabile insalata russa accanto al pollo arrosto ed un bel piatto vegetariano a base di peperoni per me. Intanto si è alzato un bel venticello del quale godiamo a lungo mentre osserviamo la luna quasi piena che si impone incontrastata alla nostra attenzione ed i lampi lontani di un temporale senza pioggia…. che felicità essere qui! La totale assenza di ragni rende poi le nostre gher insuperabili …

23 Luglio 2010

TSAGAAN SUVRAGA

Gaia sta troppo male per ripartire così approfittiamo della piacevolezza del luogo per riprendere fiato un po’ tutti mentre l’ instancabile Vanni si proietta almeno con la fantasia su nuovo obiettivo da raggiungere…. la miniera d’oro attorno alla quale si è steso fin da ieri un alone di mistero alimentato da Uchka. Pare che centinaia di disperati in cerca di fortuna abbiano costruito le loro gher nei pressi di questa miniera e che scavino disposti a tutto in cerca di qualche pagliuzza …. Uchka è spaventato all’idea di raggiungere quel luogo del quale non si conosce nemmeno la posizione precisa ….. L’informazione più certa è che si trova in un raggio di 50 km attorno a Tsagt Ovoo. Dice di aver visto un servizio in tv relativo a questi avventurieri che vengono soprannominati Ninja dagli stessi locali… ciò che immaginiamo ascoltando il suo racconto è una miniera molto simile a quella vista in Mali, dove la falda aurifera viene raggiunta scavando in verticale fori circolari e proseguendo poi in orizzontale fino ad esaurimento della vena. Mancano nel suo racconto i colori e l’allegria dell’Africa così come il senso di ospitalità e la spensieratezza che avevano reso quella nostra avventura in Mali una divertente scampagnata …. da qui non usciremmo integri dice Uchka spaventato! Poco dopo la colazione siamo tutti in costume da mare per far fronte alla canicola nel migliore dei modi possibili….. in processione continua tra una gher e l’altra per due chiacchiere o una partita a backgammon arriva nel bel mezzo della noia un suggerimento della signora del campo per risolvere il malessere di Gaia con un rimedio tradizionale mongolo che consiste nel mettere al sole una bacinella di acqua fino a scaldarla per poi bagnare con quell’acqua la testa ed i piedi, rimedio al quale Gaia rinuncia da brava occidentale. La testa avvolta nelle magliette bagnate cerchiamo tutti di trovare sollievo al calore sordo che si alza dal deserto in aliti roventi, il silenzio rotto solo dal rumore secco degli ossicini di capra con i quali i bambini del campo stanno giocando. Quando nel tardo pomeriggio raggiungiamo la strepitosa “Stupa Bianca” ad una decina di chilometri da qui, sto malissimo anch’io ed a fatica resisto senza crollare di fronte alla straordinaria bellezza di questa lunga ed articolata falesia bianca alta circa una trentina di metri ed erosa in formazioni cilindriche che sprofondano verso il bassopiano sottostante. Arrivando in auto non ci eravamo resi conto del baratro non segnalato poco più avanti ….. considerando come guidano qui in Mongolia chissà quanti sono precipitati là sotto con l’auto spinta a tutta velocità nel vuoto …. Ci avviciniamo a piedi al limite della falesia per osservare il profilo articolato e le sfumature cromatiche delle montagnette che si sviluppano come dune compatte nella piatta distesa sottostante e che rendono il paesaggio di una bellezza straordinaria dove la natura non si è risparmiata esibendosi in sfumature dal rosso al viola al bianco dalla base alla cima delle dune, al bianco totale della falesia che le contiene delimitandole verso Est come a segnare il confine fisico fra due territori completamente diversi, quello piatto ed anonimo punteggiato di ciuffetti impolverati dal quale siamo arrivati e quello ondulato e variopinto che vediamo trenta metri più in basso. E’ ufficiale…. sono anch’io vittima di un colpo di calore…. del resto oggi il caldo torrido non ha ceduto al fresco della sera nemmeno dopo l’imbrunire!

24 Luglio 2010

TSAGAAN SUVRAGA – DALANZADGAD

Grazie a qualche compressa di Imodium questa mattina siamo pronte per ripartire … cosa che facciamo verso le 8.30, quando desiderose di scoprire altre bellezze del Gobi saliamo su Asia per dirigerci verso Dalanzadgad, una cittadina impolverata ma fin troppo tirata visto il luogo nel quale si trova, il profondo sud del Gobi. La raggiungiamo in poco più di due ore seguendo la pista che si snoda nel paesaggio infinito di questo deserto di sassi rinverdito dei soliti ciuffetti che vi spuntano. Offrono la misura del benessere di questa cittadina i prodotti in vendita in un piccolo negozio del mercato tra cui le pesche, le banane e strane pere sferiche esposti con religiosa cura …. altro segno di sviluppo la banca che cambia anche gli euro! I dolori iniziano quando uscendo dalla cittadina Uchka non azzecca la pista giusta per raggiungere la famosa Yolyn Am, la bocca dell’avvoltoio, nonostante le indicazioni fornite dal benzinaio … e così è tutto un chiedere ed un aggiustare il tiro rimbalzando da una pista all’altra per 50 km nel corso dei quali Vanni dà segno di essere diventato isterico, sempre incazzato urla anziché parlare…. e dire che non era così e le decine di situazioni analoghe vissute nei viaggi precedenti erano sempre affrontate con il giusto distacco e senso di avventura… Infine a metà pomeriggio conquistiamo la sbarra d’ingresso al parco dalla quale proseguiamo serpeggiando tra i bassi rilievi che introducono alle alte pareti rocciose ma dopo circa sei chilometri foriamo! Si può facilmente capire la reazione di Vanni, nervoso fin da questa mattina e che vedevo ogni tanto fare le corna con le mani strette sul volante….. non ci sono parole per descrivere la tensione dei primi 30 secondi …. poi grazie anche all’aiuto di Fabio ed Uchka in un tempo che sembra breve siamo a percorrere gli ultimi due chilometri di pista in un saliscendi che ci porterà nella stretta vallata chiusa tra gli alti speroni che rappresenta l’imboccatura della gola. Fabio e Gaia proseguono a cavallo mentre io ed Uchka ci incamminiamo tra i cespugli di menta fiorita ed i cespugli di incenso, quegli stessi che seccati e bruciati sprigionano il loro profumo nei templi buddisti. Stiamo seguendo il corso del ruscello che scorre segnando la valle sempre più stretta mentre lassù nel cielo, oltre le cime rocciose che svettano bitorzolute oltre i 2500 metri si aggirano gli avvoltoi in ampie ed armoniose volute. In due chilometri raggiungiamo la parte più stretta della gola le cui pareti sembrano sfiorarsi sopra i residui del nevaio che in inverno supera i due metri di altezza rendendo inaccessibile il passaggio. Chissà come dev’essere affascinante il paesaggio sommerso dalla neve e chissà se gli avvoltoi si alzano in volo anche quando la temperatura dell’aria scende a sfiorare i -50°C…. Avevo letto così bene di questo luogo che ne rimango delusa, rispetto al ricordo di altri luoghi analoghi visti qua e là questa gola sembra piuttosto normale a parte la presenza di venditori mongoli di souvenir, e poi il mio cuore è ancora rapito dal fascino dell’incredibile Stupa Bianca vista ieri. Quando dopo un’oretta torniamo sui nostri passi Vanni sembra aver recuperato il buonumore di sempre…. dico sembra perché quando poco dopo essere ripartiti Uchka si mostra ancora incerto sulla pista da seguire la tensione a bordo è da coltellate! Ci salva l’arrivo al meraviglioso “Lodge Three Camel” nei pressi di Havtsgayt che Uchka è riuscito a prenotare non si sa come…. Arriviamo piuttosto tardi poco dopo aver avvistato le lontane yurte bianche del campo con al centro un enorme edificio che sembra un’astronave. Senza nemmeno vedere la gher deluxe ci accomodiamo nelle bellissime standard, ampie e ben arredate con letti di legno dipinto da una piazza e mezzo, mobiletto e tavolino coordinati…. lenzuola candide ed un bel ragno sul cuscino di Vanni. I bagni comuni sono un capolavoro….. ricavati nel fresco interrato dell’edificio di pietra con copertura a pagoda che ospita il bar, sono anch’essi completamente rivestiti di pietra scura e sono pulitissimi e profumati. L’accappatoio in camera poi ci commuove quasi quanto l’ottima cena a base di verdure fresche coltivate nelle serre qui accanto….. infine godiamo dello spettacolo della luna piena comodamente seduti nelle poltrone di pelle sulla terrazza, contiene anche un piccolo telescopio che ce ne rimanda una immagine dilatata e nitidissima…. davvero una bella oasi questo Lodge, peccato non aver la forza di sfruttare appieno il lettone finalmente comodo per due coccole….. sono a pezzi!

25 Luglio 2010

DALANZADGAD – KHONGORYN ELS

Apriamo gli occhi con la consapevolezza che il viaggio di oggi sarà difficile come annunciato ieri da Uchka con argomentazioni inconfutabili relative alla pista che dovrebbe presto ricoprirsi delle rocce della catena di montagne che attraverseremo e che fanno parte del Parco Nazionale di Gurvan Saikhan, le stesse che contengono la gola degli avvoltoi vista ieri. Con questa premessa e con la sosta obbligata dal gommista a Bulgan decidiamo di partire alle otto…. i chilometri che ci separano dall’obiettivo di oggi dovrebbero essere solo 160, ma la possibilità di dover procedere per lunghi tratti ai 20 km/h ci costringe a prepararci in fretta e senza storie. Copriamo i primi 30 km di comoda pista in trenta minuti ma dopo la sosta dal gommista a Bulgan sul GPS di Uchka i chilometri ancora da percorrere anziché essere diminuiti sono lievitati a 250! Per fortuna si tratta di un errore ed anche la pista che attraversa la catena montuosa si rivela assolutamente comoda a parte il fastidioso effetto grader che ci fa vibrare e quasi andare in risonanza insieme ad Asia ed a tutto il suo contenuto. Miracolosamente poi oggi non sbagliamo nemmeno una volta e così a mezzogiorno siamo già sull’altro versante del valico, fermi su un cocuzzolo ad osservare il cordone di dune che per la foschia sembra ancora lontanissimo. In pochi minuti invece arriviamo al campo Gobi Discovery. Due chiacchiere con un gruppo di turisti ed un pasto veloce, di salire sulle dune non se ne parla fino al tramonto, il momento più bello per le piacevoli sfumature rosate delle quali si colorano le dune. Finalmente vedo Uchka felice di non avere mai sbagliato strada…. proprio ieri sera mi aveva confidato che avendo sempre accompagnato gruppi con autista non si era mai troppo preoccupato di memorizzare le piste che percorrevano, ed il suo Gps mongolo non è propriamente uno strumento di precisione…… del resto come potrebbe esserlo in un territorio segnato da reticoli di piste dove ognuno può liberamente seguire la sua personalissima strada inventandosela sul momento? Avendo ancora qualche ora di pausa prima dell’avvicinamento alle dune ne approfittiamo per due coccole nonostante ci siano 40° all’interno della nostra gher….. praticamente un tentativo di suicidio! L’ombra della ventilata tettoia rimane il luogo più gettonato dai turisti anche per il pranzo …. da qui si può ammirare il paesaggio ora visibile in ogni dettaglio. Nonostante le diverse esperienze già maturate nei meravigliosi deserti africani ci troviamo qui di fronte ad un paesaggio assolutamente originale che vede le dune chiare coronate in alto dalla catena montuosa scurissima ed estremamente sfaccettata. In primo piano invece, oltre le gher del campo si stende un prato verde che seguendo un corso d’acqua si spinge fino alla base delle dune, come un immenso tappeto soffice dove pascolano i pochi cavalli ed i cammelli. Dopo una lunga siesta dentro la gher infuocata usciamo in missione ed a bordo di Asia ci allontaniamo lungo la pista che corre parallela alle dune distanti qualche chilometro….. nasce un equivoco. Uchka intende portarci alle dune più alte che vediamo laggiù in fondo, Gaia ed io invece siamo attratte dai movimenti morbidi di queste più vicine e così ci fermiamo in mezzo alla pista. Vanni incazzato per l’incomprensione ci molla sulla pista mentre noi ci incamminiamo verso quel cordone che sembra di poter toccare con una mano, di sabbia ora leggermente più scura per la luce smorzata delle sei del pomeriggio. Con le magliette bagnate in testa ci avviamo in ordine sparso verso l’obiettivo illusi che la bottiglietta d’acqua possa coprire il fabbisogno di ognuno di noi per l’intera passeggiata che ci vede in un primo momento attraversare le basse dune di sabbia compatta rivestite di una rada vegetazione impolverata. Dopo una mezz’oretta ci troviamo di fronte ad un canyon sul cui ampio fondo si alternano aree paludose color verde acceso e la sabbia rossa bagnata dalla lama d’acqua che vi scorre sinuosa. Una sorta di barriera naturale che superiamo scendendo ed affondando i nostri piedi nudi nella melma nascosta da un sottile strato d’erba dal quale escono centinaia di insetti come impazziti dalla nostra fastidiosa presenza, e le piccole rane scure che saltano da un escremento all’altro degli animali che si sono abbeverati qui. Camminiamo ancora per una trentina di minuti fino ad arrivare ad una fascia di erba alta e verdissima…. le nostre dune ancora lontane da noi come un’ora fa. Decido che è ora di fermarci nonostante la scelta si riveli assolutamente impopolare presso i ragazzi, soprattutto per Fabio che stizzito si allontana e chiude ogni comunicazione. Sentendomi responsabile di Gaia e conoscendo le insidie del deserto , l’acqua quasi terminata nelle nostre bottigliette e l’obiettivo ancora lontano, ritenendo di aver fatto la scelta giusta, poco dopo le sette di sera iniziamo a percorrere a ritroso la nostra strada, mentre le dune alle nostre spalle si animano di un chiaroscuro che le rende meravigliose….. amo il deserto! Sono la prima a raggiungere Vanni fermo fuori dall’auto ed al suo frizzante “ciao amore mio” rispondo con un laconico “acqua”! Assolutamente disidratata afferro la bottiglia e ne ingurgito mezzo litro senza ancora sentirmene sazia, mentre il sole viene inghiottito da una sorta di alone denso che avanza da Sud alto sull’orizzonte…. Uchka ipotizza si tratti di una tempesta di sabbia in arrivo ed ha ragione. Il tempo di rientrare al campo e di fare una doccia e si scatena un inferno…. la sabbia sparata in ogni direzione dal vento fortissimo …. è la prima tempesta di sabbia della nostra vita e sentendoci al sicuro qui nel campo ne siamo piuttosto divertiti. Diventa così un gioco uscire dalle docce per affrontare il breve tratto fino alla gher e poi di nuovo al ristorante con la testa protetta da un ampio asciugamani…. e che strana cosa vedere la luce della luna piena gialla di polvere! …. la tempesta ha reso questa serata indimenticabile.

26 Luglio 2010

KHONGORYN ELS

Dedichiamo la mattinata alla scalata della duna di sabbia, la più alta di questo deserto che si sviluppa sulla superficie piuttosto contenuta di 1200 km e di cui questo rappresenta il fronte più alto. Sono già le nove quando i ragazzi intraprendono la ripida salita dei 300 metri dapprima procedendo sui crinali più bassi e poi affrontando la parete quasi verticale per la quale si aiutano anche con le mani. Vanni li ha osservati con il binocolo in ogni step della loro impresa mentre io ho cercato di imitarli cedendo però ad un terzo della dura salita dove sono crollata affondando nella sabbia soffice e calda…. che piacere mi da essere immersa in questo elemento, e soffermarmi a lungo a contemplare dall’alto la distesa sottostante contenente anche Vanni accanto ad Asia. Finisco con l’osservare anch’io i nostri eroi già quasi sulla cima dell’alta duna ora bianca della luce del mezzogiorno….. è proprio così che si sentono Fabio e Gaia, per aver sopportato oltre la fatica ed il caldo anche la perplessità se non la paura legata alle vibrazioni dell’ultimo tratto ed il rombo della sabbia che sembrava dover franare sotto di loro una volta conquistata la cima. Finalmente contento anche Fabio perde il cipiglio del bimbo al quale è stato tolto il giocattolo e riappare radioso e felice dell’impresa condivisa con Gaia. Dopo l’immancabile siesta del pomeriggio ecco arrivare puntuale alle 18.30 il cammelliere che ci accompagnerà alle dune qui di fronte, le più vicine al campo. E’ un ragazzo mongolo di una trentina d’anni ed il suo viso abbronzato abbastanza bello da meritare di comparire nelle numerose foto che gli scatto con un certo piacere. Con un bel sorriso aperto e fiero ci aiuta a montare in sella mentre ci spiega i nostri ruoli che Uchka traduce….. impossibile approfondire la nostra reciproca conoscenza dato che l’unica parola comprensibile ad entrambi è “stop”. Nonostante si tratti di una esperienza da turisti ci divertiamo come bambini di fronte a qualche improvviso scatto dei nostri animali e godiamo del piacevole incedere mentre il sole sempre più basso smorza il calore ed esalta le forme della meravigliosa sequenza di dune nelle quali siamo ora immersi attraverso sinuose lingue d’ ombra che si stagliano sulla sabbia chiara mossa in leggere ondine e sulla già scura catena montuosa che fa da sfondo. Rapiti dalla bellezza che ora è anche sotto ai nostri piedi, riassunta in forme perfette ed assolutamente immacolata, rimaniamo immersi nel piacere fino a quando il bel cammelliere ci invita a risalire appoggiando i nostri sederi doloranti tra le due gobbe…. a malincuore eseguo l’ordine mentre considero che è sempre troppo poco il tempo che dedico al deserto!

27 Luglio 2010

KHONGORYN ELS – ONGIYN MONASTERIES

Il caldo è già insopportabile quando prima delle nove partiamo con destinazione Bayandzag attraverso la pista che punta a Nord verso la catena montuosa Bayan Borin Nuruu e che scivola poi sulle pieghe lievi di una pianura senza confini…..siamo ancora sulle piste di terra secca e polverosa il cui effetto grader continua a mandarci in vibrazione insieme ad Asia. Il progetto di massima del nostro tour del Gobi prevedeva la sosta di un giorno a Bayandzag ma stanchi delle delle lunghe sieste roventi in gher decidiamo di andare oltre subito dopo averne visto la bellissima falesia rossa variamente erosa in speroni infuocati che irradiano sui nostri corpi tutti i 50°C di oggi. Rientro esanime in auto dopo soli quindici minuti di sopralluogo, rossa infuocata anch’io come le rocce là fuori…. certo la bellezza di questa formazione rocciosa avrebbe meritato una lunga sosta comprensiva di un tramonto lì sotto la falesia per ammirarla nella sua massima intensità cromatica. Invece ripartiamo quasi in fuga verso il Nord abbandonando questa meravigliosa e poliedrica regione del Gobi, popolata di cammelli e cavalli, di lucertole e di volpi selvatiche ….. e che dire delle sterminate pianure verdi dei ciuffetti di vegetazione che riescono a sopravvivervi…. ed i rilievi rocciosi, le falesie policrome variamente erose in spettacolari sculture naturali e quella superficie di sabbia magicamente stretta fra la catena di montagne scure e la vegetazione verdissima alimentata da una sorgente sotterranea…. complicato dalle ombre delle rade nubi di oggi il profilo dei bassi rilievi che inseguiamo salendo ci appaiono come piramidi bianche e nere o come cappelli che terminano in bitorzoli appuntiti. Sabbia ed erbe, rocce vive o pendii ricoperti di verde, l’unica costante sono anche oggi le bellissime gher bianche sparse qua e la, solitarie o raccolte in piccoli gruppi familiari presso le quali oggi non ci fermiamo nemmeno una volta per prendere informazioni…… Uchka è diventato così bravo con il suo Gps che non ha più bisogno di sfidare la pazienza dei feroci cani da guardia! Quando nel tardo pomeriggio seguendo una pista serpeggiante entriamo in un gruppo di rilievi arrotondati che si sviluppano attorno ad un ruscello abbiamo raggiunto l’ambizioso obiettivo dell’Ongiyn Khiid. Del complesso degli antichi monasteri sono rimaste solo le basi dei muri ed i pochi reperti ospitati in un piccolo museo, tutto il resto, ovvero i due monasteri collegati da un ponte sul fiume fu distrutto dal regime comunista in piena rivoluzione culturale. La posizione che scelsero allora i monaci buddisti è così piacevolmente avvolta dalle colline che un gruppo degli stessi ha provveduto a ricostruire di recente un piccolo tempio nello stesso luogo. Al suo interno, sotto le statue dorate di Buddha le ciotole argentee sono piene di offerte, grano farina ed acqua…. I colori sono ovunque ed un complicato disegno di fiori sale lungo le quattro colonne a fondo rosso che sostengono il tetto a pagoda…… strumenti musicali e nastri colorati ovunque. Poco prima del buio raggiungiamo il nostro campo gher dotato di ogni comfort compreso un bel numero di docce, la sauna ed un grande ristorante. La novità vera sono le gher costruite con una struttura di legno lamellare fissa e finestrelle di vetro attorno alla torretta che in barba alla tipologia classica spunta verso l’alto come una corona. Meno arieggiate di quelle tradizionali vi si dorme immersi nel caldo soffocante.

28 Luglio 2010

ONGIYN MONASTERIES – KARAKORUM

Ancora una partenza presto per il lungo viaggio verso Karakorum, la capitale di Gengis Khan che fu distrutta dopo appena un centinaio di anni dalla sua fondazione. Il paesaggio sempre più verde ci regala vallate perfette anche nei profumi che emanano le erbe che le rivestono….. poi arriva dall’Italia la notizia delle gravi condizioni di salute di mio padre e così tutte le nostre energie sono concentrate da questo momento sull’organizzazione di un veloce viaggio di rientro in capitale e poi in Italia…. che peccato dover lasciare questo viaggio a metà…. e rinunciare alla compagnia di Gaia e Fabio, piacevolissimi compagni di viaggio che rimarranno soli fino al giorno del loro volo di rientro previsto per il primo di agosto. Fuori dai finestrini di Asia che si muove veloce verso “casa” ora non c’è più nulla….. una patina di grigia tristezza rende come invisibili ai miei occhi quelli che erano stati gli imperdibili scorci da fotografare di questa piacevolissima ed avvolgente Mongolia.

29 Luglio 2010

dal diario di Gaia e Fabio

Ulaan Baatar

Di ritorno ad Ulaan Baatar di nuovo!! Sono passati esattamente dieci giorni da quando abbiamo lasciato la capitale e ci siamo diretti verso la Mongolia selvaggia. Visitando questa terra ho capito una cosa: l’infinito esiste. Abbiamo percorso ogni giorno chilometri e chilometri abitati solo da maestose montagne ed immense praterie avendo come meta un campo gher circondato anch’esso esclusivamente dalla natura. Raramente la nostra strada si è incrociata con quella di qualcun altro….. a rendere eccezionali questi paesaggi che già di loro sono stupendi, c’erano mandrie di cavalli selvaggi, cammelli, pecore e capre….. con una disposizione casuale e disordinata gli animali sembravano come delle piccole macchie sulle gigantesche montagne. La cosa pazzesca della Mongolia è la varietà di panorami che riesce ad offrire. Si passa dal deserto di sabbia con dune e cammelli a verdi praterie senza quasi rendersene conto, poi dalle praterie ai deserti di roccia rossa custoditi da stranissimi grilli e fastidiose farfalle. Il nostro autista come al solito ha scelto il meglio da farci visitare. La disposizione per il viaggio è sempre stata questa: al volante sempre e solo papà, al suo fianco Ale che poco prima dell’arrivo in un punto leggeva e studiava tutte le informazioni utili relative a quel luogo…. dietro Fabio, io ed Uchka con scelta del posto casuale quanto accurata: – io voglio stare vicino al finestrinooo! – Ancora più dietro cioè nel bagagliaio la montagna di valigie che ci hanno accompagnato fino ad ora. Alcuni tratti di “strada” sono veramente stati faticosi ed interminabili ma per fortuna io e Fabio stuzzicandoci e giocherellando facevamo passare il tempo. Infatti il tempo è passato, fra tre giorni torneremo a casa anche se mi sembra di essere arrivata qui ieri. Tra domani e dopodomani io e Fabio ci faremo una bella scorpacciata di cultura mongola andando a visitare musei, monasteri, teatri e chi più ne ha più ne metta. Devo dire che pensare di tornare al solito tram tram mi mette un po’ d’angoscia….. qui sto così bene! Adesso sono le 16.00, papà è andato alla sua amata Toyota accompagnato dal suo fedele Uchka, a pensarci bene loro due mi ricordano vagamente Don Chisciotte e Sancho Panza, sono andati a depositare l’auto perché domani mattina all’alba Ale e papà torneranno in patria per sistemare alcune faccende importanti lasciandoci in questa metropoli da soli, anzi con Uchka, quindi è come se fossimo soli, a girovagare tra smog e polvere. Speriamo di cavarcela anche senza la loro colossale esperienza di viaggiatori! Fabio sta dormendo come un ghiro e dire che aveva appena finito di dire: – uffa non riesco a dormire perché non ho sonno!! –

30 Luglio 2010

Ulaan Baatar

Ieri è stato il primo giorno da soli ad Ulaan Baatar e tutto sommato non ce la siamo cavata per niente male. Sveglia alle 10.40 e ancora mezza addormentata con gli occhi ancora da stropicciare mi ritrovo la colazione in camera con Fabio nelle vesti di un cameriere. Finita la prima colazione Fabio decide di andare ad usufruire della spa situata al primo piano con sauna, bagno turco e la possibilità di fare i massaggi. Io rimango in camera a rigirarmi ancora un po’ nelle coperte. Per pranzo decidiamo di andare alla mitica “Veranda” dove mangiamo benissimo accompagnati da una bottiglia di vino. Dopo il dessert la nostra meta è il Monastero Choijin Lama che purtroppo ha ancora il portone principale chiuso e così demoralizzati gli giriamo attorno sperando che ci sia una seconda entrata e infatti la troviamo! …. a dire il vero sembra proprio questa l’entrata principale. Paghiamo i biglietti ed incominciamo a girovagare per il tempio, mento in alto e bocca spalancata osserviamo tutto con molta attenzione e mentre sto facendo delle foto una guardiana mi incita ad entrare nel tempio che sta custodendo. Stranamente la ragazza parla benissimo l’inglese e le chiedo se ha voglia e soprattutto se può farci da guida per tutto il monastero…. acconsente ed il nostro tour guidato incomincia. Quando alle 17 abbiamo finito di visitare tutto la guida ci informa che proprio in quel momento sarebbe incominciato lo spettacolo del Tempio con danze e musiche mongole, attori che interpretano gli Dei del tempio e contorsionisti. Entusiasti ci sediamo e ci godiamo lo spettacolo…. ma poi ecco che sono già le 18.30….. noooo…. il teatro! Prima di andare a pranzo eravamo passati per acquistare i biglietti ma la biglietteria era chiusa e adesso per l’ennesima sera non riusciamo ad andare a vedere lo spettacolo folcloristico. Convinti che sia il destino che ci impedisce di assistere a questo benedetto spettacolo ci avviciniamo all’edificio che si trova di fianco al teatro, è una birreria molto carina circondata da maxischermi dove passano solo concerti di grandi star. L’ora della cena si avvicina ma io non mi sento molto bene…. l’acidità di stomaco mi sta uccidendo ma riesco lo stesso a mangiare due fette di pizza che Fabio mi lascia nel piatto, dopo di che crolliamo a letto sommersi dalle coperte.

31 Luglio 2010

Ulaan Baatar

Alle cinque della mattina con ancora il buio fuori squilla il telefono…. è Uchka che è venuto a prenderci per portarci all’aeroporto…. ma oggi è il 31… e noi partiamo il primo agosto! Svegliati malamente dalla telefonata con molta fatica continuiamo a dormire aspettando la mattina.

01 Agosto 2010

Ulaan Baatar – Ferrara

Siamo partiti da poche ore per il ritorno in patria e già mi sento male. L’aereo è pieno di italiani, è come se fossi già a Milano. Ancora non risento dell’alzata violenta alle 4.45 della mattina, strano, dovrei essere già svenuta sulla mia strettissima poltroncina. Per la felicità di Fabio sto usufruendo del suo portafoglio per comprarmi qualcosa al duty free….. dicono che la shopping therapy faccia bene all’anima. Purtroppo il viaggio non è dei più tranquilli: alla nostra destra ci sono una mamma ed un papà venticinquenni con al seguito un bambino metà mongolo e metà occidentale, alla nostra sinistra ci sono una mamma ed un bambino di colore, qualche posto più indietro c’è un bambino russo di qualche anno più grande…. per fortuna non si sono ancora scatenati e spero non lo faranno mai. Mi mancherà la Mongolia, è stato un bellissimo viaggio alla scoperta di nuovi posti neanche mai immaginati, di una cultura che per quanto sembri strana è affascinante ed antica …. e poi i mongoli sonomolto ospitali e anche se non sanno chi sei ti accolgono e ti fanno entrare nella propria casa a bere del latte di cammello…. quest’ultima cosa non l’ho provata direttamente ma mi è stata riferita da fonti certe!
Qualche ora dopo.
Siamo saliti sul secondo aereo per la tratta da Mosca a Milano. Forse siamo un pò in ritardo sulla tabella di marcia. Hanno appena servito il pranzo, uno schifo schifoso. Io e Fabio abbiamo già programmato la cena di questa sera…. ormai da giorni ho l’acquolina in bocca…. o andiamo a mangiare una buona pizza o andiamo alle “Civette” così stiamo sul sicuro. Del pranzo ho mangiato solo pane e burro e ogni volta che d’ora in poi mangerò burro mi verrà in mente mio padre che mi dice sempre – No tu il burro non lo mangi perché ti fa male! – Ah ah ah! Mentre lui non stando mai male ne mangia a quintali cosparso da tonnellate di sale. Tornando al nostro ritorno… siamo seduti al 8b ed 8c, proprio nella prima fila dell’economy dove hai giusto lo spazio per spiare ed invidiare quelli che sono seduti in prima classe. Mhhh! Oltre ad essere segregati in economy abbiamo anche la fortuna di essere serviti e riveriti da una russa culona e biondona che ci prova con Fabio e lui cosa fa per farmi incazzare? Sta al gioco ma adesso gli arriva un manrovescio che la voglia di ridere e scherzare torna ad Ulaan Baatar!


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20 Mongolia


30 Maggio 2011

MILANO – MOSCA – ULAAN BAATAR

Siamo tornati a casa …. stessa camera, stessa receptionist il cui volto e’ familiare come quello ci Uchka quando all’alba di questa mattina la porta scorrevole dell’aeroporto ha inquadrato la sua esile figura ed il suo sorriso. Poi il nostro caldo abbraccio legato al ricordo delle avventure condivise qui nel suo bel paese e dalla capacità di Vanni di mantenere vivi i rapporti con le persone che più ci sono state care…. i nostri amici nel mondo. E’ per questa amicizia che ci lega che vorremmo essere qui quando fra un paio di settimane nascerà il suo secondo figlio e sarà un piacere fra qualche giorno rivedere la sua famiglia per ritrovare la semplice cortesia lasciata qualche mese fa dopo l’unica serata insieme. E’ con il sapore di queste piccole felici emozioni che ci addormentiamo stanchi e sereni nella nostra camera del Corporate hotel.

30 Maggio 2011

ULAAN BAATAR

La devastante notizia del razionamento del gasolio arriva con Vanni ed Asia al suo seguito . In tutto il paese per avere qualche litro di carburante occorre avere un cedolino rosso rilasciato dall’ufficio preposto …. ancora senza idee per baipassare il problema sembra proprio che dovremo raggiungere il confine russo a cavallo, il mezzo di trasporto preferito da molti mongoli nomadi sulla scia di una tradizione ancora viva… come non capirli visto lo stato delle piste sulle quali anche noi abbiamo viaggiato! Se è vero che ogni viaggio riserva intoppi e difficoltà da affrontare questo del gasolio ci sembra così assurdo da sembrare persino divertente… C’è da non credere che se esiste sul pianeta un paese dove difficilmente si trova carburante questo è proprio quello nel quale ci troviamo… causa dell’emergenza la Cina che in questo paese confinante più che in altri è responsabile di molti problemi contingenti consolidati dalla sua storica talvolta devastante egemonia. In Mongolia i giacimenti di petrolio non mancano ma non possiede raffinerie, compito del quale la Cina si è sempre fatto carico con una compravendita del prodotto che ha sempre garantito un equilibrio fra i due paesi … ora per via della sua rapida ed incontenibile crescita, di tutto il greggio acquistato e raffinato non ne ha rivenduto che una piccola quantità insufficiente per soddisfare il fabbisogno mongolo e che scaturirà presto in un disastro anche economico altrettanto allettante per l’economia cinese quanto il combustibile “sottratto” essendo impossibile per la Mongolia acquistarlo dalla confinante Russia che vende ad un prezzo superiore… insomma non convenendo acquistare noi rimaniamo a piedi! Un bottino di settanta litri è tutto quello che Vanni ed Uchka riescono ad ottenere, forse sufficiente per raggiungere la frontiera Siberiana, ma non per girovagare fra le poche mete a noi ancora sconosciute di questa Mongolia ormai sondata in ogni suo angolo più remoto. Come se non bastasse per un nostro errore sulle date dei visti rimangono ancora quindici giorni da spendere qui, incastrati tra un problema ed un errore siamo poco meno che prigionieri ad Ulaan Bataar. Quando esco è già estate, i clacson suonano incessantemente e l’eterna lotta fra pedoni ed automobilisti è feroce come sempre. Senza meta, dopo una doverosa sosta nella vicina piazza principale dove l’unica novità sono i ragazzi che sfrecciano sui tandem a noleggio, mi spingo verso l’esterno, evitando i percorsi già battuti, alla ricerca della città più verace, quella cresciuta attorno alla city dove spero di trovare qualcosa di nuovo. Il frastuono che sale dalle strade che percorro non è cambiato, né la quantità di mongoli con i quali talvolta mi scontro lungo gli affollati marciapiedi, ma poi ecco un piccolo mercato di frutta e verdura, un ubriaco stravaccato vicino alla fermata dell’autobus e mazzi di fiori. Gli occhi a mandorla sono ovunque numerosissimi, ma si diradano come per incanto oltre un’arteria trafficata che fa da barriera fra il caos ed il tranquillo quartiere che si sviluppa oltre seguendo il leggero movimento del terreno. Un paio di biliardi sul marciapiede attorno al quale due ragazzi si esibiscono in combattute carambole asfissiati dai gas di scarico, più oltre un piccolo canale cementato e pieno di rifiuti che supero attraversando un ponticello di legno. Proiettata verso la tranquillità di sentieri pedonali in terra battuta mi addentro nel quartiere popolare le cui case di legno, le gher e le catapecchie sono semi nascoste dietro recinti irregolari di assi di legno a formare pareti continue sui due lati. Su queste porte sgangherate che danno accesso ai cortili, linee sottili marcano i ritagli di lamiera che le rivestono ed un numero bianco scritto a mano spicca sul colore azzurro acceso. Il cadavere di un coniglio bianco coperto di mosche e grandi vertebre spolpate sono abbandonati a terra … segnali di un degrado nascosto dietro le impenetrabili staccionate. Eppure qualche ordinata casa in doghe di legno colorate come case di bambole spuntano qua e la confondendo le idee a chi come me sta passeggiando curiosa. Alle mie spalle verso valle, inquadrati dalla prospettiva di assi di legno gli alti edifici del centro rappresentano il mio faro, tra loro il più bello ha il profilo circolare che lo rende così speciale da essere considerato il simbolo della città almeno quanto il Colosseo lo è di Roma. Poi il ritorno in hotel dove mi aspetta un’altra cattiva notizia, la seconda di oggi… l’interprete italiano-russo che Uchka ci aveva assicurato di aver trovato è improvvisamente svanito dietro una improbabile scusa. Il giovane ragazzo che ci propone in sostituzione è timido ma il suo look gli da un’aria da bulletto Hi-pop. Parla russo e inglese ma non ha il visto per entrare in Siberia, per il cui ottenimento occorre aspettare almeno un mese… Uchka a volte è molto svampito, ed ora che sta per diventare papà per la seconda volta lo è ancora di più !

01 Giugno 2011

ULAAN BAATAR – KHARKHORUM

L’odissea del reperimento del gasolio ha impegnato la coppia di inseparabili per tutta la mattinata di ieri nel corso della quale Vanni ha sfoggiato l’intero repertorio dei suoi stratagemmi compreso la falsificazione della cedola regolarmente timbrata…. è adorabile quando non volendo rinunciare impegna la sua fantasia in modo spregiudicato…. I mongoli però sono più furbi di lui e così finiamo con l’acquistare il gasolio al mercato nero al costo proibitivo di 4000 Turghuk contro i 1500 del mercato regolare, questo dopo un paio d’ore di su e giù per la città e le numerose telefonate della nostra interprete mongola trasformatasi per l’occasione in un instancabile segugio. Pentiti di aver rifiutato la proposta di un signore che ci aveva agganciati all’uscita dell’hotel ci troviamo impegnati nell’inseguimento di un fuoristrada di aggancio fino all’interno di un polveroso cortile di periferia dove l’atmosfera vagamente equivoca ci fa pensare ad una imboscata, ma un signore esce da una catapecchia buia ed odorosa con una tanica da 20 litri in mano. Siamo salvi ora e possiamo proseguire lasciando la nevrotica ed ormai noiosa capitale per addentrarci nell’immensità del bellissimo territorio mongolo, le cui vallate profumano di erbe selvatiche e di libertà. Ora la meravigliosa steppa è attorno a noi e le sue ampie distese sono bordate da lontani morbidi rilievi dai colori sfumati come quelli sui quali stiamo viaggiando. La visita di ieri all’enorme cavallo metallico cavalcato dal mitico Chinggis Khaan al centro di un’ampia vallata è ormai solo un piacevole ricordo nonostante le superfici rilucenti nascondessero un ascensore troppo piccolo ed una scala larga non più di novanta centimetri lungo la quale i corpi ammassati di turisti locali si muovevano nei due sensi strisciando gli uni contro gli altri… l’aria irrespirabile, i bambini urlanti, insomma una esperienza claustrofobica ma molto mongola. La breve pista terrosa lungo la quale ora ci stiamo inoltrando conduce al luogo la cui attrattiva oltre alla piacevolezza delle montagne che lo circondano è una pietra a forma di fallo appoggiata ad un’altra scavata a forma di ciotola … la storia che ne spiega l’esistenza si perde nel passato quando 10.000 monaci vivevano nel monastero costruito in questo luogo e le famiglie che gravitavano nei pressi lamentavano le sistematiche avances rivolte alle ragazze più giovani … a guastare la festa un vecchio monaco che ne venne a conoscenza e che al fine di scoraggiare le scappatelle… ovvero il sesso sfrenato al quale volentieri si abbandonavano i più giovani, decise di mettere qui questo grande fallo per invocare gli dei affinché ponessero fine alla scabrosa situazione. Non si sa se l’operazione ebbe buon esito certo è che ora quel feticcio è venerato dalle donne che hanno problemi nel riprodursi e dagli uomini che ritengono insufficiente la loro virilità … l’uso che se ne fa ora è quindi esattamente il contrario di quello che lo ha generato….

03 Giugno 2011

KHARKHORUM – LAGO UGHJI

Arrivati ieri sera al Dreamland, il lussuoso campo gher che ci aveva ospitati di ritorno dal Gobi, siamo stati accolti da un acquazzone e dal venticinque volte campione del mondo di sumo, così raccontano i mongoli, il Sig. Dagvadorj le cui immagini giganti appese alle pareti del ristorante amplificano il timore dello stare accanto al suo enorme corpo per una foto. Dormire nella gher circondati dal solo tessuto di lana infeltrita ed una leggera struttura di legno da già una bella sensazione di respiro se poi la si cala su una distesa d’erba circondata dal bosco il dormire è piacevole almeno quanto il cielo di oggi che ha colorato il nostro risveglio di azzurro dopo essere usciti attraverso la bassa porticina della gher senza sbattere la testa. Tre chilometri e siamo già sull’obiettivo, la vecchia capitale è là, in versione ridotta rispetto a quella che fu, un decimo dell’originale. Le mura che la definiscono sono scandite da alte stupa bianche che come torri appuntite si stagliano contro le montagne lontane. Al loro interno i templi buddisti relativamente recenti occupano una piccola parte dello spazio vuoto lasciando libero gran parte del suolo coperto di ciuffi d’erba impolverata. Leoni in bassorilievo al centro di cerchi metallici accolgono le maniglie di grandi porte rosse e fantastici animali immaginati da chi li scolpì scivolano lungo gli spioventi arricciati dei tetti a pagoda mentre panciuti bracieri si collocano al centro dei cortili inquadrando le facciate in sequenze di coppie decrescenti. Al sobrio equilibrio degli esterni si sovrappone la ridondanza degli interni saturi dei Buddha dorati e di grandi statue colorate di divinità minori dedicati a temi contingenti come la famiglia, la fertilità, la morte, la nascita, l’inferno, il paradiso… sono divertenti le loro guance paffute, i loro sguardi minacciosi così come le dita piegate a formare corna propiziatorie e le corone di teschi sulle loro teste… il buddismo ha almeno aspetti divertenti e colorati. Sono così fortunata oggi da assistere ad una cerimonia religiosa che si sta svolgendo all’interno del tempio nel quale stiamo entrando…alcuni monaci avvolti in teli rossi stanno recitando preghiere le cui parole suonano piuttosto come un canto melodioso che esce dalle loro labbra, rilassante ed ipnotico per il ritmo lento di una litania sempre uguale calata nel profumo esotico di incensi bruciati. La strada verso il lago Ughii ci fa provare l’ebbrezza della sterrata rossa come gli abiti dei monaci e ben tenuta, un lusso rispetto a quelle che abbiamo percorso l’anno scorso entrando dal remoto confine occidentale, poi il lago come uno specchio perlaceo, quasi bianco attorno al quale come sempre lontane si alzano le onde lunghe dei dolci pendii brulli di erba secca. Capre e pecore brucano invece sulle verdi propaggini vicine al lago, ed i loro belati di soddisfazione arrivano piacevolmente al campo gher dove ci fermiamo per la notte… molto più spartano di quello di ieri, ma comunque un lusso da queste parti.

04 Giugno 2011

LAGO UGHJI – ULAAN BAATAR

La notte gelida ci sveglia non appena la stufa si spegne e la gher si trasforma in un frigorifero mentre i nostri sacchi a pelo sono rimasti inutilizzati in auto. Pone rimedio al gelo il Vanni che come la piccola fiammiferaia con l’aiuto della fiamma di un accendino borbottando incazzato riesce a riattivare le braci restituendo al nostro sonno il giusto tepore. La vista del lago questa mattina è così rilassante da farci dimenticare la scomodità del minuscolo lettino ed il silenzio totale è interrotto solo dal cinguettio di poche rondini la cui coda divaricata indica come un timone la direzione prescelta. Come puntini nel cielo azzurro le osserviamo dalla terrazza di legno del refettorio che si protende verso la costa vicinissima. La luce è perfetta così come le linee morbide dell’intorno che si insinuano sulla superficie piatta ora blu mentre in lontananza poche gher bianche risaltano sui declivi color nocciola. Il paesaggio che si apre attorno alla pista che stiamo seguendo ora ci da la stessa inebriante sensazione di libertà che generano gli ampi spazi aperti mentre lontane piramidi di terra che si alternano a colline tondeggianti ci accompagnano brulle e leggermente sfuocate dal riverbero di questa giornata ora caldissima. I valichi di poche centinaia di metri sui quali saliamo ci alzano abbastanza da mostrarci le meraviglie di questa incantevole steppa mongola in un saliscendi emozionante come quello delle metalliche montagne russe. Intanto greggi di pecore ostruiscono la strada ora asfaltata e cammelli e yak brucano tranquilli come i cavalli, scheletrici per la rigorosa dieta in vista delle competizioni del Naadam, la festa nazionale che inizia il 12 luglio. Noi invece siamo ancora impegnati nella strenua ricerca del gasolio che ci serve per raggiungere Ulaan Bataar, inutilmente fermi ad ogni distributore nonostante gli insistenti sorrisi alternati alle lamentazioni della nostra interprete ed ai cartoncini di vino rosso che Vanni porge ai benzinai con un sorriso complice sulle labbra. L’avvistamento delle pensiline rosse crea però sempre più deboli aspettative ma Vanni non molla…. lo adoro per questo, io sono il suo esatto contrario, almeno quando so che è lui ad occuparsi delle emergenze. Anche qui però nessuno abbocca al foglietto falsificato e sotto quelle pensiline un pezzo di carta incollato sulla pompa del diesel comunica chiaramente che il serbatoio è vuoto. Solo più tardi dopo aver osservato le colline rotonde come seni siliconati e le nuvole immobili sopra l’orizzonte, un caso fortunato ci da qualche speranza. Due camion militari sono fermi vicino ad un distributore. Hanno forato… ma terminata l’operazione di sostituzione, incitati dal benzinaio allettato dal vino italiano, i militari cedono al prezzo tutto sommato conveniente di 2000 turghuk i venticinque litri di oro nero che ci consentono di conquistare la cena in capitale al ristorante La Veranda ( tel. 330818 ) una bella coccola che gustiamo seduti sui divani di velluto viola e la terrazza che si apre su uno degli antichi templi più belli della città rendono l’ottimo cibo ancora più gustoso.

07 Giugno 2011

ULAAN BAATAR

La decisione presa ieri sera di lasciare al più presto la città ci ha dato una sferzata di energia che una serie di intoppi avevano smorzato …. come la strenua ricerca di un interprete. Il tempo rimasto in vista della nostra partenza verso la Siberia Orientale ormai agli sgoccioli ci aveva portato con molte perplessità ad accettare la proposta di Paa, il ragazzino Hi Pop, ma il visto già richiesto per soli trenta giorni non è infine arrivato perché non essendo Paa ancora maggiorenne può uscire dal paese solo se accompagnato da uno dei genitori…. la cosa incredibile è che ci siano voluti dieci giorni perché Uchka se ne accorgesse. Verso sera arriva Angel una ragazza troppo dinamica e decisamente nevrotica che conosce però benissimo sia il russo che l’ inglese…. non potrei sopportare la sua presenza per più di poche ore, ma il progetto definitivo del nostro viaggio, programmato giorno per giorno solo ieri sera mi salva infine da lei perché i trenta giorni di visto che potrebbe ottenere solo fra una ventina di giorni non ci servirebbero a molto. Considerando che abbiamo viaggiato per anni cavandocela egregiamente da soli decidiamo di rinunciare all’interprete e di stampare invece una serie di frasi che riassumono le nostre necessità più comuni tradotte in lingua russa, dando così una svolta avventurosa a questo viaggio che stenta a decollare e di scampare al disastro annunciato di partire con Angel. Per festeggiare ceniamo al Bistrò Francais ( tel. 320022 ), una buona alternativa al ristorante La Veranda … vini ed ottimi formaggi francesi, una crème bruleé strepitosa e la tanto desiderata tartare di carne per Vanni che non ha avuto ancora la soddisfazione di mangiarla preparata da cuochi asiatici. Felice conclusione di questa giornata tutto sommato positiva.

08 Giugno 2011

Ulaan Bataar – Secret of Ongi tourist camp

Arrivati ad Ulaan Baatar sulla scia di un piacevole ricordo ne fuggiamo ora con il serbatoio pieno lasciandola alle spalle senza rimpianti proiettati verso nuovi territori …. un bel sospiro e via verso le montagne verdi che ci avvicinano al confine. Pastori a cavallo in pastrani colorati accompagnano in eterne transumanze le pecore che punteggiano di bianco i prati, le lunghe pertiche mosse per raggrupparle, cani neri, mandrie di buoi, yak e cavalli scattanti. Viaggiamo felici a bordo della nostra Asia deliziati dalle ampie conche che attraversiamo come scivolando sulle onde lunghe di un oceano verde con la serenità ritrovata dell’andare senza ostacoli. Un’ora più tardi macchie di pini introducono lo sfondo del nostro Lodge i cui tetti aguzzi ed il legno delle pareti ci riportano alla familiare fisionomia dei nostri chalet di montagna, poi seguendo il profumo del legno raggiungiamo la nostra camera dove il salotto precede l’ alcova colorata di bordeaux e cornici di legno scuro. Alcune vespe ciccione sembrano abitarvi da tempo e per il momento non ci sono né l’ acqua corrente né il riscaldamento, inconvenienti subito compensati dalla gentilezza del gruppo di ragazze che lavorano qui. Vanni le conquista tutte entrando in cucina con il suo tritacarne portato dall’Italia con la premura di chi per una serie di motivi preferisce il comodo macinato alla scomoda masticazione… è proprio pigro il mio amore. Il termosifone elettrico acceso ed il piumone su di noi osserviamo stesi le montagne rischiarate dalla luce della luna appena sfuocate dalle tende trasparenti. Vanni è stato il primo ad avere il coraggio di entrare dentro le lenzuola dandomi l’occasione di osservare con calma i dettagli del suo buffo look di emergenza composto da calze di cotone, la maglia che spunta in basso dalle mutande alzate fin quasi alle ascelle ed alta panciera biancastra … mascherina azzurra ancora alzata sulla fronte, l’immancabile cerotto sul naso e tappi gialli nelle orecchie. Più sobria mi accosto a lui con mutandoni da sci su maglia di lana, cerotto al naso gentilmente concessomi e tappi gialli nelle orecchie… e sogni d’oro.

09 Giugno 2011

SECRET OF ONGI TOURIST CAMP

La luce fioca dell’aurora entra dalle grandi finestre d’angolo restituendo alla camera i colori ed una calda atmosfera mentre fuori dal bozzolo caldo dei nostri corpi i profili delle montagne ancora nere risaltano sullo sfondo che va accendendosi dei toni rosati dell’ alba. Risucchiata dalla profondità del sonno dai rumori discreti di Vanni mi sveglio definitivamente dalla lunga piacevole ronfata alla quale seguono in sequenza l’idea di sostituire i miei tappi ed il possibile ampliamento del bagno nella camera degli ospiti, idea che non gli piace minimamente. Lasciamo lo chalet ed il cancello alle nostre spalle ed avanziamo lungo la sterrata che sfiora un piccolo lago gettonato da alcune mucche e da un paio di famiglie che lo hanno scelto per un pranzo al sacco con bagno, tuffi e l’ allegria chiassosa di una breve vacanza, e poi di nuovo il silenzio che ci conduce all’asfalto. La statua di un grande Buddha dorato spunta solitaria dall’erba della vallata. Libero da involucri e calato nel suo elemento non poteva esserci una collocazione migliore di questa per la divinità che simboleggia l’armonia e l’equilibrio dell’intero universo…. il cielo azzurro fa risplendere le sue forme ed il suo sguardo serafico conferisce all’intorno una quiete infinita. E’ il luogo ideale dove fare una lunga sosta stesi sul prato ai suoi piedi … difficile spostare i nostri occhi dai suoi, dalla perfezione della sua figura incorniciata dalle montagne che sfumano lontane. Senza età, sospeso tra maschile e femminile, questo Buddha ci appare semplicemente divino. Qualche chilometro dopo un secondo analogo avvistamento ci calamita verso un secondo grande Buddha dorato che custodisce un ordinato cimitero. Oltre un alto cancello le stupe bianche in file ordinate occupano una piccola parte del grande prato che si perde all’orizzonte sulle colline. Ornate con mitici animali dipinti in bianco su fasce di pietra scura e coronate in alto da pennacchi dorati hanno alla base ciotole di offerte e piccole incensiere di pietra. File di tombe più semplici le precedono a ribadire che nemmeno la morte cancella le differenze sociali qui come in ogni parte del mondo… ma questa tranquilla vallata è senz’altro per tutti loro uno dei luoghi migliori dove concludere la propria vita. L’escursione torna alla cruda ma pittoresca realtà attraverso alcuni bassi edifici raggruppati lungo la strada a formare un piccolo centro abitato dal sapore di tempi passati. Decadenti ed affascinanti racchiudono tutto l’essenziale… l’officina ospitata in uno scassato edificio di legno e lamiera impolverato dalla terra battuta del piazzale, l’unico emporio rifornito di tutto comprese le leccornie per i più golosi, una farmacia e qualcos’altro nel grande edificio di tronchi. Persone sedute accanto alle porte di casa osservano le poche macchine che passano, i cani in cerca di qualcosa da mangiare e le poche persone che camminano sui pochi ciuffi d’erba cresciuti accanto ai solchi lasciati in passato da pneumatici affondati nel fango. I sidecar e le vecchie Lada farebbero impazzire un amante di auto d’epoca mentre un vecchio trattore russo dipinto di azzurro è immobile sulla piattaforma che ne fa un monumento dedicato al lavoro dei campi ed un paio di grandi falci e martello stilizzate risaltano sul casermone costruito dietro una breve fascia di vegetazione. Siamo fermi in uno dei tanti centri abitati che mostrano con modestia i simboli della storia più recente sovrapposti a quelli di un lontano passato. Il serbatoio quasi asciutto assaltiamo disperati un camion cisterna conquistando così i venticinque litri di carburante che ci consentiranno di tornare al Lodge e di raggiungere la frontiera. Anche i piccoli spostamenti extra non saranno più possibili… sigh.

14 Giugno 2011

SECRET OF ONGI TOURIST CAMP

Non essendovi abituati il relax si trasforma presto in noia, nessuno con cui scambiare due parole ed orde di mongoli chiassosi durante il weekend che bevono, ridono parlano ed urlano a volumi per noi disumani. Impossibile interagire, la loro lingua è solo un suono incomprensibile ed al nostro scarso interesse nei loro confronti corrisponde la totale indifferenza da parte loro tutti concentrati nel godersi i pochi giorni di baldoria … come biasimarli ! Ma tutto serve ed il bel tempo ci ha visti superare l’ avversione al trekking stimolandoci ad espandere il nostro territorio dalla camera 204 al bosco di abeti, betulle e fiori attorno allo chalet …. una novità piacevolmente colorata, esaltata dal sole che filtra attraverso le foglie ed i tronchi di betulla, sul ruscello che scorre accanto al sentiero e sui musi dei cavalli che pascolano tranquilli tra i cespugli. Qualche metro in più conquistato ogni giorno prima di stramazzare sfiniti sugli aghi di pino, fiori raccolti in un modesto mazzetto, la soddisfazione di obiettivi sempre più lontani raggiunti anche per compensare con lunghe passeggiate in salita la quantità di cibo che divoriamo stimolati dall’aria di montagna… una bella alternativa alla immobilità insopportabile quando si è appena iniziato un viaggio, il libro di cinquecento pagine consumato negli ultimi tre giorni rende bene l’idea dell’ozio forzato in vista dell’ agognato quindici giugno che è già domani e che festeggiamo con la gustosa torta al cioccolato che io stessa ho preparato in cucina. Gentilmente a mia disposizione le sei ragazze dello staff mi hanno aiutata a preparare ed hanno preso appunti …. me la sono sempre cavata bene in cucina ed ho spesso trascritto ricette per le amiche ma queste zelanti alunne mi fanno sentire per la prima volta una grande cuoca… che carine.


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21 Siberia Orientale


15 Giugno 2011

SECRET OF ONGI TOURIST CAMP – ULAN UDE

“Tutto il mondo è paese” recita un noto proverbio, noi possiamo affermare che “tutte le frontiere del mondo sono un ostacolo da superare”, specialmente quelle della ex URSS. Eravamo usciti traumatizzati da quella Azera ed ora è la frontiera Mongola che ci fa penare ma per motivi fortunatamente più soft e se là ci eravamo trovati a combattere una sorta di guerra con i militari della dogana ci troviamo invece qui ad affrontare l’insopportabile invadenza fisica e le sgomitate di viaggiatori mongoli cinesi e siberiani molto lontani dalle minime norme di buona educazione, e che dire della svogliatezza delle impiegate che sedute dietro le scrivanie preferiscono dedicarsi ad attività così fuori luogo da risultare persino divertenti …. come la depilazione delle sopracciglia?! Nonostante la lunga esperienza e l’aspetto grottesco di questa che sembra piuttosto la messinscena di una farsa ne esco infastidita, anzi incattivita ed i 35° non mi aiutano ad evitarlo. Poi capiamo il motivo dell’agitazione di quei corpi magri e nervosi …. il contrabbando di capi di abbigliamento cinesi verso il territorio russo. Non è sfuggito a Vanni, attento osservatore delle dinamiche che muovono le persone, in piedi accanto ad Asia ha visto molte magre signore diventare obese per gli strati di abiti fissati ai loro corpi con il nastro adesivo… ventri, gambe e sederoni nascosti sotto abbondanti tute da ginnastica ed una distesa di etichette a terra…. al contrario di me lui si è divertito da morire! Il passaggio alla frontiera russa ci ha invece proiettati all’interno di un paese civile abitato da persone educate la cui organizzazione si annuncia fin dall’ingresso attraverso le corsie diversificate per auto camion e pullman. Gentilezza ed efficienza che addirittura ci spiazzano di fronte all’ impiegata che parla a differenza di noi un inglese impeccabile ed alla speciale cortesia rivolta a noi italiani grazie a Toto Cotugno ed Adriano Celentano che entusiasmano gli asiatici almeno quanto i Beatles ed i Rolling Stones hanno entusiasmato noi occidentali. Incredibile ma tutto vero. Nonostante la vicinanza anche il paesaggio cambia facendosi sempre più brullo con oasi di verde solo in prossimità dei laghi compresi nelle depressioni delle colline ai lati della vallata che attraversiamo. Stanchi ma felici per aver finalmente dato una svolta al nostro terzo viaggio in Asia gustiamo i 220 km che seguono in direzione Nord verso Ulan Ude.

16 Giugno 2011

ULAN UDE

Tatiana ci aspetta seduta sul divano di fronte alla reception dell’Hotel Bayangol. Il viso incorniciato da lunghi capelli biondi è giovane e bella ed il rossore sulle sue guance tradisce la sua timidezza, sarà l’ interprete che ci accompagnerà fino al termine del nostro viaggio in Siberia la cui durata è ancora del tutto vaga anche per noi. Dolce ed educata, ci rendiamo subito conto che l’insuccesso dei diversi precedenti tentativi è stato per noi una grande fortuna perché Tatiana ci convince fin dal suo primo sorriso di aver casualmente trovato la persona giusta. Esco subito in sua compagnia per una perlustrazione della città che finisce col deludermi. Non contiene ciò che desideravo trovare, ovvero le tracce del recente passato sovietico che si era espresso altrove attraverso la costruzione di bellissimi edifici razionalisti. Quei pochi che trovo lungo le strade del centro non hanno il sapore di quelli visti per esempio ad Almaty o a Tashkent, ma è pur vero che Ulan Ude non è una capitale ed il regime ha preferito qui celebrarsi attraverso anonimi edifici neoclassici uguali ai tanti presenti in ogni parte del mondo… sono invece affascinanti le poche case di legno scuro risalenti al periodo zarista o che più verosimilmente ne riproducono lo stile. Non è la prima volta che le vediamo ma sempre rimaniamo conquistati dalla varietà delle particolari cornici di legno traforato che bordano finestre e porte e che rendono questi bassi edifici ad un piano sempre diversi l’uno dall’altro ed evocativi di tempi passati, solo le tendine bianche ai vetri suggeriscono che queste casette che sembrano uscite da una favola sono ancora abitate.

17 Giugno 2011

ULAN UDE

Vanni è scomparso ed il letto accanto a me è già freddo, o ha cambiato stanza stremato dalla lotta combattuta per accaparrarsi il piumone troppo stretto per entrambi oppure è già alla ricerca dell’officina Toyota alla quale deve aver pensato per buona parte della notte. Poco dopo sono anch’io ad inseguire gli obiettivi di oggi iniziando dall’enorme testa di Lenin al centro della vicina piazza, l’oggetto più bello e significante della città. L’avvistamento di una cupola viola che spunta dietro l’enorme teatro neoclassico mi dà la certezza di aver trovato ciò volevo. Sembra un’astronave che galleggia su un bellissimo edificio degli anni cinquanta con bianche costolonature aggettanti sulla superficie violetta della facciata. Poco distante il fianco di un edificio rigorosamente squadrato riproduce in una composizione ben costruita i volti stilizzati di alcuni dei leader politici che hanno fatto la storia del partito… inutili le ulteriori ricerche perché con questi due esempi di edifici di stampo sovietico e le case di legno viste ieri si esaurisce tutto ciò che di interessante esiste dal mio punto di vista qui ad Ulan Ude. Il resto è la brutta copia di un neoclassico che non trova qui alcuna ragione di essere oppure sono edifici di ordinaria edilizia contemporanea. Cammino con Tatiana lungo la triste Lenina, il corso in parte pedonale fiancheggiato da vetuste vetrine che espongono il peggio dell’abbigliamento cinese, compreso quello sportivo delle marche più note. Intanto al cielo grigio fa da perfetto contrappunto quella che sembra una nevicata di fiocchi bianchi che sommerge aiuole, strade e passanti. Cadono dagli alberi lungo i viali del centro …. un trompe l’ oeil tridimensionale che ha reso divertente la passeggiata di oggi nella modesta capitale della repubblica di Buriazia, la regione che ospita la minoranza mongolo-siberiana, estremamente diversa ed a fatica tollerata dalla dominante etnia russa. I buriati vivono in modo semplice dedicandosi all’ attività tipicamente nomade dell’allevamento del bestiame, abitano talvolta nelle caratteristiche gher e come dice Tatiana si ubriacano troppo spesso…. beoni ed attaccabrighe associano alla maleducazione gli occhi troppo a mandorla e la pelle troppo scura in un mix intollerabile per i diafani e rispettabili russi…. insomma è sempre la solita storia, il diverso spaventa ovunque nel mondo.
Come previsto dopo aver cercato inutilmente l’officina Toyota Vanni ha ripiegato presso il meccanico suggerito dal taxista che ha espresso la sua diagnosi: gli ammortizzatori di Asia sono da sostituire…. la speranza è di trovare l’officina giusta almeno a Irkutsk.

19 Giugno 2011

IRKUTSK

La Parigi della Siberia non è affatto brutta come la descrive la guida ed anzi siamo colpiti dal suo carattere vivace e dagli edifici che si spingono decorosi fino alla periferia. L’abbiamo raggiunta ieri dopo otto ore di viaggio lungo la strada a tratti accidentata che sale sulle montagne per poi scendere a costeggiare l’enorme lago Baikal parallelo alla mitica transiberiana che in questo tratto sfiora le acque dolci più profonde del pianeta. Tra le nuvole abbiamo attraversato alcuni villaggi di montagna le cui case di legno coperte da leggeri tetti aguzzi sembrano formare un grande presepe, ordinato come i suoi viottoli deserti. Siamo ad Irkutsk ora…. Vanni e Tatiana all’officina Toyota finalmente trovata ed io libera di muovermi disordinatamente per le strade della città come una leonessa che ha ritrovato la sua savana e con essa le sue prede preferite. Poco dopo la colazione, infreddolita per l’inadeguatezza del mio abbigliamento alla temperatura di questa mattina presto, raggiungo in taxi il Monastero Zuamensky. Gli interni sono affrescati ed allestiti come una chiesa ortodossa che si rispetti con la parete di fondo interamente rivestita da una boiserie barocca dorata che inquadra le figure di santi. Non abituata ai riti ortodossi osservo i fedeli baciare le numerose icone appese alle pareti ed ai pilastri, incuranti delle labbra che vi si sono appoggiate poco prima. A garantire l’ igiene sommaria, una anziana signora si cura di pulirle ogni tanto con uno straccio mosso con decisione sui vetri illuminati dalla luce debole di candele sottili. Le tre aree di preghiera occupano ambienti diversi ma comunicanti fra loro e le tre pareti lignee di fondo sono dipinte a diversi colori e coronate da volute barocche color oro come i porta candele circolari dai quali la stessa signora toglie le candele consumate solo a metà. La folla di fedeli mi scoraggia dal fare foto ma mi offre l’opportunità di abbandonarmi alla magica atmosfera di una messa cantata nella quale un coro di melodiose voci femminili accompagna la voce cupa dell’officiante il cui braciere oscilla disperdendo ovunque l’odore di incenso. Dall’angolo nel quale mi trovo è appena visibile, circondato dai fedeli che si inchinano all’unisono in sequenze di tre accompagnate da altrettanti segni della croce. Sulla panca vicina sono sedute tre signore non più giovani i cui occhi lucidi tradiscono la loro commozione… quella che invece si occupava di cancellare le impronte sulle icone mi passa accanto e con un sospiro di disappunto accompagnato da un’occhiataccia mi fa notare che diversamente da tutte le altre signore non ho i capelli coperti, la maglietta non copre le mie braccia e non mi inchino né distribuisco bacetti alle icone, insomma sono un vero disastro! Però alcune signore mangiano indisturbate alcuni dolcetti mentre si muovono liberamente tra il pubblico… che ingiustizia! Solo più tardi quando gli sguardi delle diffidenti vecchiette non si staccano da me scappo rendendomi conto che la domenica è impossibile scattare foto senza correre il rischio di un linciaggio. Rimando quindi a domani il soggetto religioso per dedicarmi a quello altrettanto autentico legato al recente passato regime… e lo trovo, quasi completamente nascosto dai prospetti neoclassici del corso principale, leziosi come le loro tinte pastello. Dietro i patinati edifici addossati gli uni agli altri, oltre i marciapiedi che risuonano dei ticchettii di tacchi troppo alti si libra verso il cielo un edificio articolato e possente, bello e fatiscente, le pareti di mattoni e vetro appoggiate su massicci pilastri di cemento armato squadrati con la forza di un disegno costruttivista. Rapita dalla preda insperata, la osservo da ogni angolazione ammirando ogni centimetro della sua interessante diversità…. è un sollievo averlo trovato. Felice ma non ancora appagata non mi sottraggo ad altro genere di squisitezze come i vicoli veraci che si spingono oltre le facciate ordinate di una strada pedonale, le scalette di metallo arrugginito che salgono sulle pareti di mattoni, composizioni di impolverate insegne pubblicitarie, un manichino vestito con un abito da sposa ancora incelofanato… una chinatown immaginaria della quale mancano solo i profumi dei ravioli cotti al vapore, un bel bottino quello di oggi! Anche Vanni rientra radioso, prima di tutto per aver trovato aperta l’officina Toyota e per la revisione doc eseguita dal team di meccanici in estasi per i racconti dei nostri viaggi a bordo di vecchi Land Cruiser. Al centro dell’attenzione per le avventure raccontate di fronte al pubblico affascinato, non poteva capitargli una situazione più esaltante… ma non è tutto, la revisione ed i pezzi di ricambio sono omaggio della sede Toyota onorata di aver avuto Asia fra le mani, una grande giornata per tutti qui ad Irkutsk!

20 Giugno 2011

IRKUTSK – LAGO BAIKAL

Curiosi di vedere l’isola Olkhon per i pareri favorevoli letti sulle guide e l’entusiasmo di chi l’ha visto, ci avviamo lungo la strada che si allontana dalla città in direzione Nord. Trovarla non è stato semplice per Tatiana che nonostante viva qui da sempre ci ha portati fuori strada un paio di volte né è stato facile per Vanni dissimulare, per una forma di cortesia di fronte alla sua mortificazione, la sua incazzatura. Come ha sempre sostenuto seguire un taxi per uscire o entrare in città sconosciute è sempre la soluzione migliore, ma questa mattina Tatiana ha insistito così tanto da non poter rifiutare, come la capisco …. ho sempre preferito anch’io la soddisfazione di riuscire a farcela da sola. Compensiamo con la fortuna di trovare un traghetto in partenza pochi minuti dopo il nostro arrivo al porticciolo di Sarma raggiunto dopo sei ore di viaggio lungo la strada non ancora asfaltata negli ultimi cento chilometri. Impieghiamo poi un’altra ora per raggiungere Kharantsy, l’unico centro abitato dell’isola. Sula strada sinuosa che si spinge verso nord sfiorando le basse colline gialle di erba secca, in netto contrasto con l’acqua blu del lago che si insinua verso l’interno in profonde baie. L’isola ci appare fin dai primi chilometri un’ottima scelta, affascinante come un improbabile deserto circondato dall’acqua. Kharantsy è un grande villaggio di modeste case di legno circondato dalle guest-house che ospiteranno le centinaia di turisti che arriveranno nei prossimi mesi. Tra le basse rocce orizzontali che scendono a picco lungo la costa frastagliata la sabbia chiara di piccole spiagge giustifica la presenza massiccia dei turisti anche locali per i quali il lago rappresenta l’unica possibilità di prendere un bagno nelle sue acque gelide o di stendersi sulle spiagge a godersi il sole nel raggio di migliaia di chilometri. La Nikita Guest-house, vivace e ben allestita è una sorta di ostello ben costruito nel quale il legno è il tema dominante. Utilizzato per realizzare ogni cosa prende la forma di bassi edifici, percorsi, sculture, panche, tavoli, scalini, letti e persino i recinti per i conigli. In perfetta armonia con la naturalezza di ciò che è fuori dall’alto steccato e protetta da occhi indiscreti è un microcosmo avvolgente che riassume tutto ciò che serve compresa la sensazione di essere in un ambiente caldo e familiare. Le casette vicine tra loro sono disposte in modo casuale su diversi livelli collegati da qualche scalino, la loro vicinanza crea stretti passaggi di terra battuta e minuscole piazzette che rendono indefinita come in un borgo medievale la percezione dello spazio, dilatato per l’impossibilità di vederne i confini. Al disordine apparente della guest-house corrisponde la disorganizzazione reale della reception che non ha ricevuto la nostra prenotazione via mail costringendoci ad occupare una camera microscopica nella quale a malapena sono stati inseriti due lettini ed un lavandino sporco che scarica in una tanica. Il bagno comune alle due camere del piano terra è maleodorante ed usato abusivamente da alcuni ragazzi che non migliorano la situazione. L’impatto è forte ma abbiamo avuto sistemazioni ben peggiori, e poi siamo a pochi metri dal lago immenso come un mare e vicini ad una piccola spiaggia raccolta tra due faraglioni di roccia che vi si immergono illuminati dalla luce che si sta spegnendo, Alle nostre spalle le basse colline ondulate gialle come dune di sabbia e più in là le montagne verdi di pini. C’è tutto sull’isola Olkhon, anche i giovani saccopelisti piuttosto bellocci che affollano la guest-house.

21 Giugno 2011

ISOLA OLKHON

L’escursione in barca parte poco dopo le nove, l’aria è gelida ed i posti a sedere all’interno del cabinato troppo pochi per offrire a tutti un riparo, ma la piuma d’oca dei nostri giacconi ci salva dall’assideramento mentre i visi dei giovani passeggeri lividi di freddo esprimono l’evidente desiderio di impossessarsene…. e dire che in questi giorni avevamo pensato di aver occupato inutilmente la valigia con questi due ingombranti asky! Il vantaggio ci consente di godere di una vista a 180° seduti sulla coperta di prua della piccola barca a motore. Siamo diretti sulla selvaggia terraferma raggiungibile solo attraverso l’acqua dolce del lago ora piatto, i profili della costa appena visibili offuscati dalla foschia che sale fino al cielo velato. I passeggeri sono russi e giovanissimi come la guida che non conoscendo a fondo la nostra ignoranza al riguardo si è proposto di parlare degli obiettivi di oggi in inglese …. chissà se un 20% di padronanza della lingua ci consentirà di capire qualcosa. Per fortuna non c’è poi tanto da capire ed il primo obiettivo in mezzo al bosco che conquistiamo con una certa fatica non è per noi così magico come Roman continua a sostenere ma approfondiamo grazie ai suoi racconti alcune caratteristiche della cultura buriata. Carica di superstizioni e legata a quella animista mongola considera alcune isolate zone dell’isola e della terraferma cariche dell’energia che vi lasciarono le divinità che le scelsero millenni prima della comparsa dell’uomo. I numerosi sciamani tuttora presenti in quest’area geografica assorbono e restituiscono l’energia divina attraverso i particolari rituali che li eleggono al ruolo di intermediari del divino mentre i fedeli esprimono la loro appartenenza e gratitudine attraverso preghiere ed offerte come in tutte le religioni del mondo. Nel caso particolare della cultura buriata e visibili ora di fronte ai nostri occhi vi sono centinaia di strisce di tessuto colorato legate ai rami di un vecchio albero cresciuto vicino ad una sorgente d’acqua. Un angolo piacevolissimo dove sostare anche per il relax che ci consente di riconquistare dopo la lunga lieve salita. A sottolineare con un simbolo evidente la sacralità del luogo una maschera è stata scolpita sul tronco di un albero vicino. Semi nascosta dai tessuti colorati delle offerte conferisce a questo posto quel tocco di magia che lo rende unico…. siamo soddisfatti. La stupe bianca costruita in cima alla cresta rocciosa di una piccola isola che raggiungiamo poco dopo segnala invece l’esistenza dell’altra corrente religiosa spesso coesistente con lo sciamanesimo, il buddismo, ma erano così belle quelle viste in Mongolia che questa non ci sembra valere l’arrampicata. Ne approfittiamo per osservare le piccole lastre irregolari di pietra locale messe in posizione verticale ed in equilibrio l’una contro l’altra e per fare due passi lungo la piccola spiaggia sgranocchiando i biscotti che Vanni ha sottratto non visto dalla cambusa della barca. Uno spuntino che ha compensato l’impossibilità di consumare il pranzo preparato dalle mani nodose e nere di lavoro del simpatico comandante Vladimir. La sua somiglianza allo zio Secondo sommata al tema dell’escursione ha convinto Vanni che la magia di questo luogo esiste davvero e che Vladimir ne è la testimonianza.

22 Giugno 2011

ISOLA OLKHON

La piacevole conoscenza di Sergei sfocia in questa mattina di commiato nello scambio di qualche regalo, lo scatto di alcune fotografie e la promessa di rivederci a Chabarovsk, la città nella quale vive e che desidera mostrarci con la promessa dell’esperienza per noi nuova della banja, il bagno di vapore tipicamente russo che per le rigide temperature invernali è qui un vero e proprio rito. Vanni concentrato nel trovare sulle carte stradali le arterie che ci condurranno agli obiettivi di questo viaggio ancora agli inizi, decido di scendere da sola nella spiaggia ora deserta ad eccezione di una mucca sul bagnasciuga che si abbevera nelle acque del lago. In fondo all’ampia insenatura un paio di grandi scogli sembrano i dorsi di grandi balene, di fronte a me la leggera increspatura dell’acqua grigia di foschia introduce gli speroni chiari della costa appena visibile. Senza che l’ avessi cercata la magia dell’isola mi arriva improvvisa e con essa il piacere di una armonia infinita. Qui e altrove, mi sento sospesa in uno spazio immateriale e senza tempo, in questo ed in tutti i viaggi possibili. Come quello che oggi accompagna le note musicali che scendono dal mio I pod all’interno di questa cornice indefinita. Felice e circondata dall’intero universo mi accorgo che uno dei sorrisi più veri sta sollevando le estremità delle mie labbra.

25 Giugno 2011

IRKUTSK

Nonostante Asia sia per noi un “pezzo ‘e core” e che con lei sia un grande piacere viaggiare, i suoi ventotto anni di vita richiedono in cambio manutenzioni sistematiche non sempre brevi. A volte abbiamo desiderato entrambi che le soste forzate durassero più a lungo del previsto, Vanni perché si diverte nel ruolo di supervisore tecnico dei lavori ed io perché amo avere più tempo per appropriarmi senza fretta dei luoghi nei quali ci fermiamo. Questi tre giorni ad Irkutsk invece sono pesati ad entrambi per la maleducazione del personale dell’hotel Europa e per il fastidio delle colazioni accompagnate dalla musica di Toto Cutugno a tutto volume …. l’equivalente di una martellata in testa. Anche per questo ci coccoliamo con una cena al ristorante Eterno ( eterno2004@mail.ru – Ul. Lenina n°15 – tel. 336282 ) i cui piacevoli colori, l’arredo essenziale, l’ottima cucina e la musica che accompagna la serata sulle note di un modernariato musicale rigorosamente su vinile hanno reso questa serata di commiato molto piacevole… ora siamo pronti per partire!

26 Giugno 2011

IRKUTSK – ULAN UDE

Il sole di oggi rende piacevole il viaggio verso Ulan Ude sulla strada non sempre perfetta che si snoda per 450 km dentro la foresta che riveste a perdita d’occhio le montagne attorno a noi. Il lago riappare a tratti come a ricordarci le centinaia di chilometri percorsi dal punto nel quale lo avevamo lasciato diversi giorni fa congedandoci dall’isola Olkhon. E’ sempre piacevole vederlo ed è così immenso da sembrare onnipresente in tutta la regione nella quale ci stiamo muovendo. Il tema del lago torna ad interrompere la piacevole monotonia del bosco nel quale siamo stati nuovamente risucchiati sotto forma di prodotti venduti nei mercatini rudimentali ai bordi della strada. Sulle assi di legno appoggiate a bastoni annodati cataste di piccoli pesci affumicati aspettano di essere acquistati, non ci sono speranze invece di trovare le fragoline di bosco intraviste sotto l’acquazzone lungo il viaggio di andata… devono essere andate a ruba. Dopo le case di legno dei tanti villaggi attraversati e le carovane di camperisti tedeschi diretti in Mongolia forse inconsapevoli del problema diesel , dopo sette ore di viaggio traguardiamo la familiare Ulan Ude che sarà ora il punto di partenza verso i territori dell’estremo oriente russo. Poi la 310 dell’Hotel Baikal Plaza nella quale entro pensando a quanto il viaggiare ci abbia resi capaci di sentirci come a casa nelle camere sempre diverse degli hotel nei quali facciamo tappa…. sicuramente un vantaggio mentre si viaggia ma un problema quando si torna a casa. Cena a base di sushi nella saletta in stile giapponese del ristorante sotto l’hotel …. una scelta strana in questo luogo così lontano dal mare… ma una squisita alternativa alla carne spesso proposta come piatto forte nei ristoranti di cucina tradizionale… Tatiana arriccia il naso ed arrossisce imbarazzata di fronte ai maki che scivolano dalle sue bacchette allontanandola per un istante dalla perfezione dei suoi gesti abituali, non sa che quasi tutti hanno vissuto l’esperienza di uno schizzo di salsa di soia sul tovagliolo.

27 Giugno 2011

ULAN UDE – CHITA’

Le case di legno sono scure di pioggia ed il cielo è livido. Stiamo percorrendo un tratto della M55 il cui lungo cordone di asfalto collega Vladivostok alle città siberiane più occidentali. Chità è lontana in fondo alla strada semideserta dalla quale sono spariti anche i camper tedeschi ora immersi nei bellissimi paesaggi mongoli. Siamo probabilmente gli unici turisti europei ad affrontare le dieci ore di noioso viaggio tra i boschi di betulle ed i pochi villaggi tradizionali calati nel territorio monotono come la steppa kazaka, solo più difficile da attraversare. Seduta sul sedile posteriore Tatiana si abbandona a qualche pisolino mentre io intrattengo Vanni che come sempre procede senza dar segni di stanchezza, senza mollare mai. Io invece sono disintegrata quando alle sette di sera raggiungiamo l’hotel Zabaikale di Chità, il termometro segna trenta gradi ed un’ora in più sugli orologi segna il passaggio dalla Siberia Orientale ai territori dell’Estremo Oriente Russo. La piacevole sorpresa è che le nostre camere affacciano sulla piazza principale dove la grande statua di Lenin domina in posizione centrale i giardini e più oltre gli edifici rappresentativi che la definiscono con i loro prospetti in stile neoclassico. Tra loro si distingue un grande edificio scatolare probabilmente degli anni ’50 la cui texture verticale grigia rappresenta un giusto sfondo al granito rosa dell’uomo politico ancora celebrato dal popolo siberiano mentre più lontane si distinguono appena le basse montagne ora sfuocate. Ceniamo al ristorante dell’hotel Montblanc il cui pacchiano classicismo plasticoso degli interni non disturba quanto la disco music russa sparata ad un volume troppo alto, particolarità che sembra molto di moda nei ristoranti degli hotel siberiani, la qualità del cibo è nella media.

28 Giugno 2011

CHITA’

Nonostante la pioggia ed i ruscelli d’acqua accanto ai marciapiedi dedichiamo la giornata all’esplorazione della città che si mostra vivace e dal sapore internazionale nonostante l’assenza di turisti occidentali. Così come avevamo notato ieri sera osservando la piazza dall’alto anche ora passeggiando a quota zero notiamo il mix di stili del tessuto urbano del dove a qualche sparuta casa di legno del periodo zarista si mescolano pochi edifici in mattoni dal sapore retrò ed edifici di legno con ampia torre d’angolo stranamente riproducente l’occidentale stile Queen Ann …. difficile capire chi ha copiato! A questi si sommano i condomini talvolta piacevolmente arricchiti con accurati dettagli, gli anonimi edifici scatolari e quelli celebrativi del potere nel periodo sovietico. Imponenti, neoclassici e patinati dai recenti restauri si pongono in antitesi a quelli rigorosamente razionalisti adibiti ai servizi pubblici …. ma tutti insieme, sparpagliati nel tessuto urbano, riassumono l’evoluzione della recente storia russa, compresa la cattedrale ortodossa le cui curve esuberanti dipinte di azzurro sembrano disegnate da Botero. Rimango a lungo di fronte al vecchio teatro, incantata dalla bellezza del progetto ed affascinata dal suo romantico sapore decadente così come l’ elegante e leggera pensilina degli autobus in elaborate volute metalliche o la stazione degli autobus che sembra uscita dalle pagine di un libro di storia dell’architettura del ventennio. L’arte e l’architettura che gli artisti russi elaborarono dopo il 1917 riflettevano l’entusiasmo e lo spirito rivoluzionario di allora, nacquero così movimenti artistici come il costruttivismo ed il suprematismo che condizionarono le avanguardie europee, compreso il futurismo italiano. Il regime incoraggiò dapprima quel linguaggio progettuale ma lo rinnegò poco dopo perché ritenuto non sufficientemente rappresentativo del nuovo popolo russo. Da quel momento si sovrappose ad esso il realismo nell’arte ed il neoclassicismo nell’architettura. E’ proprio il prodotto di quel primo impeto creativo che vado cercando passeggiando per le strade di Chità e lo trovo qua e la in espressioni tutto sommato modeste ma che pur sempre spiccano come gioielli lungo le strade del centro storico, senz’altro non apprezzate dalle persone che li sfiorano camminando…. che peccato! Vanni invece insegue con altrettanto interesse informazioni esaurienti sulle strade che dovremo percorrere per raggiungere Yakutsk, una cittadina piccola e solitaria sperduta nel nord della Siberia nata per accogliere i cercatori dell’oro e dei diamanti presenti all’interno del terreno ghiacciato sul quale sorge, il permafrost. Certo non è semplice raccogliere precise informazioni sulla qualità e la lunghezza delle strade in queste regioni dove gli spostamenti sono ancora ridotti al minimo, come se i centri urbani dell’estremo oriente russo fossero vasi non comunicanti. I chilometri e lo stato dell’asfalto, ammesso che esista, sono quindi sempre variabili a seconda della fantasia di chi risponde ma in questo caso le notizie raccolte ci danno la certezza di dover percorrere almeno 1200 km in condizioni proibitive. E’ per questo motivo che Vanni abbandonata ogni velleità di cimentarsi in inutili peripezie ha valutato la possibilità di raggiungere Yakutsk a bordo di un comodo aereo, ma anche le informazioni raccolte presso l’aeroporto deserto della città non sono incoraggianti e così non ci resta che conquistare l’estremo Nord a bordo di Asia. Cena al ristorante “ il cacciatore “ addobbato con troppi trofei di caccia ma che propone buone pietanze tutte naturalmente a base di carne… là fuori decine di ragazze sfilano in abito da sera come modelle su passerelle di asfalto, ossessionate dal desiderio di sedurre e di sembrare ancora più belle grazie ai vertiginosi tacchi che le sostengono … vorrei anch’io avere un corpo perfetto come i loro sigh!

30 Giugno 2011

CHITA’ – EROFEJ PAVLOVICH

La prima tappa di avvicinamento a Skovorodino ci vede impegnati sull’asfalto perfetto di questo nuovo tratto della M55. Al paesaggio boscoso che continua invariato e monotono oltre i finestrini di Asia finiamo col preferire la lunga striscia grigia che cattura la nostra attenzione lungo i settecentocinquanta chilometri oltre i quali non abbiamo intenzione di andare. La lunga deviazione verso Nord che collega la M55 a Yakutsk metterà nei prossimi giorni a dura prova la nostra resistenza decidiamo quindi di fermarci in una località scelta a caso sulla carta stradale ed evidenziata un paio di giorni fa con un asterisco nero. Un punto piuttosto che un luogo vero e proprio, preso in considerazione solo perché si trova alla giusta distanza da Chità …. il luogo ideale per una sosta tecnica. La piccola cittadina però si presenta molto meglio dell’unico hotel disponibile le cui pessime condizioni ci fanno desistere dal desiderio di fermarci, e nonostante la stanchezza lasciamo alle spalle la topaia inaffrontabile proseguendo oltre con la certezza di trovare qualcosa di più confortevole. Arriviamo nell’unico centro abitato abbastanza grande da poter ospitare un albergo dopo altri cento chilometri. E’ il dormitorio di una delle stazioni della BAM a salvarci infine dalla disperazione. La robusta signora che ci accoglie sta lavando i pavimenti delle due camere dell’ostello, sono tristi ma pulite e sulle lenzuola bianchissime le coperte di lana blu sono piegate a formare un fiore, ma l’acqua calda nel bagno in comune è razionata La doccia sommaria e la zuppa consumata nel baretto all’angolo ci sembrano però dopo la strenua ricerca di oggi un inaspettato regalo amplificato dalla prospettiva di un domani ancor più incerto. Nonostante la mia buona volontà però, dopo un’oretta di inutili tentativi, alzo bandiera bianca e fuggo dalla graticola e dal baccano di due signore arrivate tardissimo e piazzatesi nella camerata di Tatiana. Sono in tenda ora, comodamente distesa sul materasso tutto per me sul quale mi addormento ascoltando i treni che passano verso obiettivi sconosciuti.

01 Luglio 2011

EROFEJ PAVLOVICH – NERJUNGRI

Il passaggio dalla M55 alla M56 rappresenta per noi una svolta in molti sensi. Da un lato lasciamo la strada maestra per avventurarci verso Nord inseguendo un obiettivo che esula dai percorsi tradizionali, dall’altro abbandoniamo la strada perfettamente asfaltata per quella sterrata che ora sappiamo con certezza essere piuttosto malmessa…. In questo primo tratto potremmo benevolmente definirla la strada delle farfalle che per lunghi tratti svolazzano nell’aria come i fiocchi di una tormenta di neve… ma sappiamo che i chilometri per raggiungere Yakutsk, divenuti con certezza 1250, saranno durissimi. Strada facendo scopriamo però con piacere che gli 80 km che seguono la città di Tynda sono asfaltati e consentono a Vanni di spingere l’acceleratore della nostra Asia ora bianca di polvere fino a raggiungere la bella velocità di 100 km/ora. Quando dopo otto ore di viaggio raggiungiamo finalmente Nagornij, li ricordiamo come un breve sogno quasi completamente svanito. E’ il centro abitato scritto con piccole lettere sulla carta stradale nel quale stremati vogliamo fermarci. Ci siamo accorti però che molto spesso qui in Siberia alle decisioni prese non segue la possibilità di realizzarle e qui a Nagornij non c’è nemmeno un café dove mangiare qualcosa. Non è solo il terrore di Tatiana all’idea di dormire in tenda a convincerci ad andare oltre…. e dopo i pochi villaggi di capanne incontrati lungo gli ulteriori 120 km di asfalto pieno di crateri il vivace centro abitato di Nerjungri ci appare come una metropoli. Per la prima volta apprezziamo gli alti condomini degradati segnati dalle giunture dei pannelli prefabbricati ed i semafori che ne confermano la dimensione urbana … ma solo molto più tardi e con grandi difficoltà conquisteremo un letto sul quale dare sollievo alla nostra stanchezza. E’ in un paio di modesti hotel ricavati nei piani terra di alcune di queste case popolari che stupiti ci rendiamo conto di non essere graditi. Sembra incredibile ma non ci sono letti disponibili per noi con passaporto italiano e l’ostilità nei nostri confronti ci mostra un paese solo teoricamente democratico, non ancora aperto dopo vent’anni ad accogliere gli esponenti di un occidente che è stato a lungo un nemico da combattere. Come ora in questa cittadina dove i pochi turisti stranieri arrivati sono di nazionalità cinese e giapponese e noi siamo gli alieni che si muovono come intrusi lungo le strade. Non sono solo le foreste e le strade devastate gli alti muri da superare per conquistare una camera d’hotel! I taxisti invece si mostrano cordiali e cercano di soddisfare la loro curiosità rivolgendo a Tatiana domande a raffica alle quali non si sottrae per pura cortesia, ma che la fanno precipitare nell’imbarazzo di essere considerata a sua volta un’estranea nella sua stessa patria. All’Hotel Condor la storia si ripete con la signorina che dietro il banco arriccia il naso di fronte ai nostri passaporti afferrandoli come se fossero due patate bollenti ma infine ci concede una camera accogliente e pulita nella quale entriamo trionfanti come in seguito ad una lunga battaglia. Dopo i 400 km percorsi con fatica e la camera finalmente concessaci conquistiamo anche un ristorante carino dopo averne evitati due con matrimoni e musica a tutto volume … contenti ci sentiamo vittoriosi su tutta la linea!

02 Luglio 2011

NERJUNGRI – TOMMOT

Questa mattina io e Tatiana abbiamo la soddisfazione di una colazione tardi gentilmente concessaci da Vanni sempre più mattiniero di noi nella prospettiva delle incognite che il viaggio ci riserverà. Senza fretta riprendiamo la lunga corsa verso Yakutsk e la strada asfaltata che percorriamo per una sessantina di chilometri ci dà la giusta sferzata di ottimismo prima delle difficoltà che inevitabilmente seguono subito dopo. I solchi infatti ci fanno sussultare a lungo, impressi sulla terra per tutta la larghezza della strada, inevitabili anche con lo slalom nel quale Vanni è maestro. Per fortuna non è sempre così ed alla scomodità della sterrata si alternano lunghi momenti di quiete e la possibilità di inserire la quarta marcia là dove i rulli hanno spianato la terra di riporto. I diversi cantieri che incontriamo lungo il percorso renderanno presto questa strada percorribile a gran velocità agevolando i collegamenti tra le cittadine ora pressoché isolate del Nord della Siberia al Sud più sviluppato. Per il momento però ci sorbiamo le buche fino ad Adan per finire poi in bellezza sull’ asfalto che impeccabile ci accompagna fino a Tommot, il nostro obiettivo di oggi raggiunto dopo 350 km e sei ore di viaggio…. un successo! Non è andata così bene la ricerca di una camera per la notte, essendo ancora in costruzione quello che diventerà presto il più ambito motel della zona, comodamente posizionato lungo la strada federale. Per il momento tutto ciò che Tommot ha da offrire ai viaggiatori è una vecchia casa di legno le cui camere sono tutte occupate da camionisti di passaggio. Rimbalzando da un’informazione all’altra ripieghiamo presso un circolo nautico, molto lontano dai nostri standard. Un paio di capannoni nell’ampio cortile occupato in parte da vecchi continer arrugginiti ed una casetta di legno coperta da un ondulato di eternit, il tutto in prossimità del grande fiume navigabile che si spinge a Nord. Il custode gentilissimo mette a nostra disposizione due camere ed una Banja con acqua calda per lavarci, la latrina invece è rigorosamente all’esterno! L’esperienza del caratteristico bagno russo è molto gradevole e la sua piacevolezza è esaltata dal suo aspetto semplice e verace come il nostro gentile ospitante che l’ha attivata appositamente per noi riscaldando le pietre della sauna. I tre ambienti comunicanti sono rivestiti di assi di legno e costituiscono un percorso che va dallo spogliatoio alla sauna passando attraverso l’ambiente dedicato alla pulizia del corpo. Gli elementi che generano il calore sono i sassi arroventati che vengono in questo caso utilizzati per riscaldare oltre la sauna anche l’acqua contenuta in un fusto. Collocato nell’ adiacente camera del lavaggio, in posizione simmetrica rispetto al fusto identico pieno di acqua fredda che si trova sull’angolo opposto, ci offra la possibilità di scegliere la giusta temperatura dell’acqua per lavarci dosando con un mestolo l’acqua fredda e calda dentro un catino. Ne usciamo caldi e puliti in barba al vento gelido che soffia là fuori.

03 Luglio 2011

TOMMOT – YAKUTSK

Con la certezza di non trovare camere disponibili lungo la strada per Yakutsk partiamo decisi a raggiungere la remota città entro questa sera, 450 km non sono pochi se la strada di oggi sarà nelle stesse condizioni di quella già percorsa, ma considerando una ottimistica velocità media di 50 km/h dovremmo arrivare all’obiettivo verso sera. I cafè nei quali ci fermiamo con il pretesto di un rifornimento di gasolio sono modesti e spartani come i piccoli villaggi che fanno da cornice, magnifici per noi che amiamo calarci nella scomoda bellezza delle cose più semplici. Entriamo volentieri calpestando i pavimenti di linoleum sbiadito per un tè caldo e uno spuntino a base di carne o le insalate contenute in ciotole troppo piccole se paragonate alla loro squisitezza…. poi ancora in viaggio. Il lungo tratto di strada asfaltata fino oltre la cittadina di Adan ci fa pensare di poter arrivare addirittura prima del previsto, così come i tratti di stabilizzato ben pressato di questo lungo cantiere. Oltre allo stato di avanzamento dei lavori stradali verifichiamo che la linea ferroviaria della BAM non si ferma a Tynda come scritto sulle guide, ma corre parallela alla strada fino a Yakutsk, le rotaie ancora luccicanti, i ponti e le poche gallerie ancora immacolati. Per il momento è funzionante solo fino a Tommot, ma i lavori termineranno probabilmente prima di quelli della strada…. ma non siamo ancora arrivati e negli ultimi 100 km la strada diventa così disastrosa da azzerare il nostro vantaggio, ed arrivati nei pressi dell’approdo del traghetto che attraversa il fiume Lena, siamo così storditi per le nuvole di polvere sollevate dai camion, per i sobbalzi e gli slalom fra le buche da non vedere il piccolo cartello che lo segnala …. sarà finita? Neanche per sogno … un’altra piccola ma intensa prova ci aspetta nell’invaso sabbioso che scende fino al fiume Lena, verso la battigia sulla quale il traghetto che collega alla città sull’altra sponda lascerà cadere il suo portellone. Le macchine in attesa sono così tante da far capire che non saliranno tutte sul prossimo traghetto ed il successivo salperà solo fra più di un’ora. Il caos è totale e le informazioni che Tatiana raccoglie non fanno che confermare quello che avevamo già intuito, qui vale la legge del più forte e solo chi si imporrà sugli altri salirà a bordo. Vanni non ne vedeva l’ora e come un pirata alla conquista del traghetto nemico si spinge nell’imbuto sempre più stretto, il piede premuto sull’acceleratore per scoraggiare i vicini con il rombo graffiante del motore. Le auto sempre più vicine alla nostra riesce a scalzarne diverse compreso un furgoncino il cui autista imbufalito inizia ad inveire lanciando contro di noi parole minacciose quanto incomprensibili con il viso paonazzo di rabbia. Come attrici di un film neorealista entrano poi in scena tre donne che si appoggiano incazzate al muso Asia nell’intento di bloccarci…. è la guerra! Sentendosi sfidato Vanni accetta di buon grado il duello ed avanza sulla sabbia cedevole incurante delle signore che aggrappate al tubo del nostro bullbar cercano di resistere spingendo nella direzione opposta, gli urli ora arrivano anche da parte nostra ma il loro diversivo funziona ed il vicino ci supera conquistando una posizione con una incredibile stizza da parte nostra che ormai siamo entrati nella logica di questa delirante lotta, nemmeno si trattasse di vincere un premio milionario! Arrivato il traghetto la lotta si trasferisce verso lo spazio della coperta apparentemente insufficiente per contenere tutti, ma i battaglieri indigeni dal viso schiacciato e gli occhi così a mandorla da sembrare chiusi non si lasciano scoraggiare e spingendo a forza di braccia l’ultima auto riescono ad incastrarla poco oltre il portellone. Ora non c’è spazio nemmeno per aprire le portiere ma siamo tutti contenti di arrivare pacificamente a Yakutzk. Con undici ore di viaggio sulle spalle, dopo aver attraversato la città squallida e grigia come il cielo piovigginoso sopra di noi, varchiamo la soglia del Solar Polar. L’hotel imita i modelli occidentali ormai fuori moda, ma è l’edificio migliore della città e per noi il più bello del mondo. L’ascensore vetrato si muove nell’altissimo atrio d’ingresso e la camera contiene tutte le cose che ci si aspetta di trovare in un hotel confortevole… mobili stile impero, moquette, carta da parati setosa e la luce giusta. Nonostante la stanchezza inizia ora la lotta per la conquista dei tre biglietti aerei che ci consentiranno di raggiungere Mirnji al più presto. La città proprio non ci piace e l’energia che Vanni impiega per raggiungere l’obiettivo non lascia al riguardo alcuna ombra di dubbio. L’operazione era iniziata senza successo fin da Yrkutsk quando le impiegate della compagnia aerea avevano chiaramente detto che non possono passare più di trenta minuti tra il momento della prenotazione e quello dell’acquisto dei biglietti, ma non essendo allora certa la data del nostro arrivo l’operazione era stata rimandata ad oggi …. così come la messa a punto della strategia alla quale ricorrere per avere subito la possibilità di andarcene a Mirnji. In pratica Tatiana dovrebbe recitare in monologo il copione partorito estemporaneamente dall’incredibile fantasia di Vanni. Dovrà dire all’impiegata della S7, l’agenzia che gestisce i voli verso molte località siberiane, che sta accompagnando a Mirnji un giornalista ed un cameraman che si occupano di organizzare un servizio sull’estrazione di diamanti nelle miniere della regione, il documentario andrà in onda nelle TV italiane. Non essendo stato possibile acquistare in anticipo i biglietti a causa di un contrattempo i suoi clienti devono trovare ora un volo disponibile per domani. In cambio faranno pubblicità alla compagnia aerea S7. Non si può capire quanto la timida Tatiana sia stata contenta di trovare tre posti liberi senza bisogno di dover recitare l’incredibile copione, ma Vanni rimane comunque un genio!

04 Luglio 2011

YAKUTSK – MIRNJI

Poco dopo le quattro del pomeriggio saliamo sull’aereo le cui vibrazioni al decollo fanno temere il peggio, anche considerando i numerosi aerei che come racconta Tatiana sono precipitati qualche anno fa in territorio russo, ma la prospettiva di lasciare il grigiore di Yakutsk ci consola quanto il bel cielo azzurro inquadrato dai finestrini poco dopo il decollo. L’atterraggio ci riserva però una sorpresa divertente quanto drammatica che per puro caso abbiamo ora la possibilità di raccontare. Per la diversa pressione, poco prima di toccare il suolo uno spiffero così forte da far drizzare i capelli come se fossimo esposti ad una tormenta esce dal portellone di emergenza accanto a me chiaramente non a tenuta. In un primo momento rido per l’inaspettato effetto speciale, poi capisco perché Tatiana è così terrorizzata all’idea di salire su un aereo ed il pensiero va ai tre voli che dovremo fare prima di lasciare la siberia, sarà come tentare la sorte, giocando alla roulette non a caso chiamata russa! Approfittiamo delle lunghe giornate nelle quali il sole sembra non tramontare mai per dare subito un senso a questa lunga deviazione su Mirnji. Ci dedichiamo così alla ricerca di un elicottero che ci permetta di soddisfare il nostro desiderio di osservare dall’alto la miniera di diamanti a cielo aperto più grande del mondo. Aveva solleticato la nostra curiosità un documentario visto in TV pochi mesi fa nel quale la incredibile forma a cono rovesciato dell’invaso ci era parso imperdibile così come la pericolosa salita attraverso lo stretto percorso a spirale dei grossi camion carichi di pietre, nonché le esplosioni per sbriciolare il durissimo permafrost. Il desiderio di vedere era stato troppo forte per non cedere e noi troppo vicini per rinunciare allo spettacolo, ed ora eccoci qui, dopo 1250 km di deviazione dalla transiberiana, decollo ed atterraggio al limite della sicurezza, di fronte all’enorme cratere della miniera disattiva fin dal 2001, nella quale persino la rampa a spirale è stata quasi completamente cancellata dal terreno lasciato cadere per smorzare i pericolosi gas di risalita. E’ stato come aver perso 2.000 € al casinò dice Vanni per sdrammatizzare… ma la delusione pesa a tutti noi. A movimentare la serata arriva invece una strana telefonata a Tatiana nella quale un impiegato dell’aeroporto le fa presente di non aver ritirato un voluminoso bagaglio a suo nome… il parabrezza di un auto. Il mistero si fa fitto non solo per lo stano oggetto che lei non ha mai spedito ma anche perché Tatiana non ha lasciato a nessuno il suo nuovo numero di telefono…. saremo controllati dal KGB? Il sospetto avanza giustificato dalla quantità di visti contenuti nei nostri passaporti e per le numerose telefonate all’ambasciata giapponese fatte di recente. In fondo l’idea di avere i servizi segreti russi alle costole non fa che amplificare il senso di avventura che sempre ci inebria ed a Mirnji non c’è nient’altro da immaginare.

07 Luglio 2011

YAKUTSK

Yakutsk non merita una fotografia ma possiede un paio di musei interessanti che raccontano la sua storia non percepibile camminando per le sue strade. Nessuna traccia evidente degli imponenti edifici pubblici realizzati altrove nel periodo sovietico sostituiti qui da quelli senza carattere cresciuti nel cuore della cittadina. Il Museo Artistico Nazionale racconta invece attraverso dipinti ed oggetti abilmente scolpiti nell’ avorio delle zanne di mammut la storia delle popolazioni che abitarono qui in un passato non troppo remoto mentre i diamanti racchiusi nel museo bunker Sokrovischnitsa sono la preziosa e luccicante testimonianza del recente sviluppo economico della città, presa d’assalto dai tanti uomini d’affari che danno un senso all’esistenza dell’Hotel Polar Solar. I due musei sono per noi gli unici obiettivi dopo il ritorno da Mirnji, l’unico atterraggio della mia vita dal quale pensavo non sarei uscita viva. Lo sfavillio di luce che si sussegue lungo il percorso ad anello nel quale avanziamo sotto il controllo attento della nostra accompagnatrice è un effetto speciale di fronte al quale molte signore avrebbero perso la testa, e la brillantezza di quei diamanti colpisce anche noi che non pensavamo ne esistessero di così enormi…. addirittura due centimetri di diametro e chissà quanti carati ! La grande quantità d’oro bianco giallo e rosso è esposto sotto forma di lingotti, piastre e matasse di filo. A questi seguono i manufatti tra i quali spiccano innumerevoli gioielli abbastanza arzigogolati da conquistare i mercati russi nei quali sono incastonate pietre preziose di tutti i colori immaginabili. E poi le preziose zanne di mammut lavorate, molte pietre semi preziose che prendono qui la forma di oggetti di uso comune come vasi da fiori o grandi scatole, e poi ancora i diamanti che rappresentano la vera attrattiva del museo. Vanni però è un uomo fortunato ed esce dalla visita senza il rischio di vedere prosciugato il nostro conto corrente …. i brillanti mi piacciono solo in vetrina!

09 Luglio 2011

YAKUTSK

La tragedia si compie la mattina successiva, quando Vanni viene assalito da un cane alla catena nascosto dietro il portone dell’officina nella quale era appena entrato. Ne veniamo a conoscenza solo dopo un paio d’ore quando rientrando da una passeggiata, l’impiegata dell’hotel ci avvisa che Vanni è stato morso da un cane. Preoccupate iniziamo le nostre ricerche telefonando al taxista che lo aveva accompagnato all’officina attraverso le strade polverose della periferia. La seconda telefonata è al centralino dell’ospedale nel quale è stato portato in ambulanza e dal quale ci dicono è uscito da pochi minuti. Non sapendo nient’altro immaginiamo sia tornato all’officina che raggiungiamo. Quando mi consegnano la sua camicia inzuppata di sangue scoppia la mia disperazione e la lunga corsa all’ospedale nel quale però non c’è traccia di lui, è appena ripartito a bordo dell’auto di un paziente che si è offerto di dargli un passaggio. Lo troviamo in camera, la gamba coperta da un paio di fasciature già insanguinate ed i pantaloni gettati a terra, lacerati come immaginiamo le sue carni. Gli occhi spalancati dallo shock ed incazzato nero mi proibisce di andare a denunciare l’accaduto alla polizia … non mi rimane che andare sul luogo del delitto per recuperare Asia e per scaricare la mia rabbia, feroce quanto quella di Tatiana la cui dolcezza si trasforma ora in un’aggressività pari alla mia. Quelli che troviamo in officina però sono gli uomini insensibili che non lo hanno soccorso quando a terra si lamentava per il dolore e così ottusi da non capire il danno che gli hanno procurato. Si difendono dai nostri urli dicendo che i cartelli di pericolo appesi all’esterno del cortile li scagionano da qualsiasi responsabilità… peccato che siano scritti in russo e senza nemmeno l’immagine di un cane che li avrebbe resi comprensibili a tutti. L’unica cosa che riescono a dire per venirci incontro è che non vogliono essere pagati per le due saldature fatte, e se a questo punto ci tratteniamo dallo scagliarci contro di loro è solo perché sappiamo che ne usciremmo piene di lividi … però che fatica! Solo le fasce impregnate del sangue fuoriuscito nel corso della prima notte fanno desistere Vanni dall’idea di proseguire il viaggio, ma poi il leggero progressivo miglioramento nei giorni successivi crea le condizioni per proseguire anche se a denti stretti fino al Giappone escludendo dal programma la sola Kamchatka …. se non altro eviteremo di prendere altri due aerei! La convalescenza ha reso Vanni abbastanza sereno da poter raccontare con ironia alcuni particolari della sua disavventura che ora divertono tutti noi. All’ospedale per esempio nel quale è entrato seduto su una sedia a rotelle che non avendo l’appoggio per i piedi lo ha costretto ad alzare le gambe dolenti con notevole sforzo dei suoi addominali poco allenati, con un apice di difficoltà nel dover superare l’ostacolo dei telai fissati al pavimento nelle due porte di ingesso, io stessa ho visto una signora con un piede fasciato alzarsi in piedi dopo un paio di tentativi andati a vuoto. Ma non è finita qui, una volta entrato nella sala operatoria squallida, degradata e sporca come il resto dell’ospedale era stato invitato a stendersi sul lettino ricoperto di linoleum dalle due gentili dottoresse che avevano indossato per l’occasione due paia di guanti sterili, poi nel bel mezzo dell’operazione di cucitura delle sue carni, una di loro ha afferrato il cellulare che suonava nella tasca del suo camice ed ha risposto tranquilla per poi proseguire senza fretta e con i guanti non più sterili la sua opera di rammendo… che roba! Accompagnato da un paziente che stava uscendo dall’ospedale ha fatto il suo ingresso nel foyer dell’hotel come un eroe di guerra vestito solo delle sue fasciature e di uno slip nero. Dora, la receptionist, si era accasciata dietro il bancone ma senza crollare a terra e gli ospiti seduti sui divani neri dell’elegante foyer ordinatamente disposti attorno alla vasca d’acqua erano sbigottiti per l’insolita apparizione non proprio consona ad un hotel “chic” come questo. Le fasce rosse di sangue era stato scortato alla nostra 524 da un paio di preoccupati consierge. Riassumendo, dopo tre giorni di macchie di tintura di iodio e sangue su lenzuola ed asciugamani, dopo le incessanti richieste di ghiaccio e cuscini supplementari, quasi ci hanno pagato per lasciare l’hotel!

10 Luglio 2011

YAKUTSK

Non rimane che trovare un autista che ci conduca attraverso la difficile strada fino all’intersezione con la M55, a Skovorodino, un paese del quale nessuno sa nulla e che Vanni ha scelto per via dei grandi caratteri con i quali è indicato sulla carta stradale, … una scelta quella dell’autista resasi necessaria considerando la mia scarsa esperienza di guida su strade disastrate come questa nella quale io avrei senz’altro centrato tutte le buche disseminate lungo gli interminabili 1250 km! Con Tatiana iniziamo ad intervistare i taxisti che incontriamo lungo le strade roventi della città per sondare la loro disponibilità ad accettare l’incarico in cambio di 50 $ al giorno oltre a vitto, alloggio ed il costo del rientro a Yakutsk. La proposta alletta più di uno tra cui un vigoroso e maleodorante ex camionista ed un bel ragazzo troppo giovane ed inesperto per non creare ulteriori problemi…. con nostro grande disappunto la scelta di Vanni cade ovviamente su Victor. Oltre al suo odore non mi piace la sua arroganza nel voler imporre i suoi tempi di viaggio nonostante Vanni insista per procedere con calma impiegando almeno quattro giorni per coprire l’intero tragitto. Le medicazioni che dovrà fare ogni giorno impongono alcune soste obbligate e poi dopotutto Victor lavorerà per noi, un particolare non trascurabile che però deve essergli sfuggito. Domani mattina dopo l’ultima visita all’ospedale avrà fine il nostro soggiorno coatto a Yakutsk. Che sollievo!

11 Luglio 2011

YAKUTSK – TOMMOT

Se i problemi fossero finiti qui sarebbe già un discreto risultato per non finire esauriti, ma il secondo incubo arriva poco dopo la partenza con Victor il taxista che alla guida di Asia ci sta conducendo sulla devastata M56 della quale ora percepiamo tutti i colpi ed i sussulti amplificati dalla delusione a 360° di questa infelice deviazione fuori programma. Distese di boschi verdi, nuvole di polvere sollevate dai camion che ci precedono e poi un paio di bellissimi monumenti del periodo sovietico a Neriungri e Tinda che per il vuoto che li circonda mi sembrano persino meravigliosi … anzi lo sono davvero, come tutti quelli visti finora. Geni del mosaico e della stilizzazione di armi e corpi, gli autori vi hanno espresso la forza del regime, la ferocia dei soldati, la durezza nei confronti di ogni possibile dissidenza fissando quella folle spinta rivoluzionaria sulle superfici geometriche di semplici architetture. Adoro quel linguaggio semplice ma efficace che al di la di ogni speculazione politica racconta dello slancio creativo, del sogno di quegli artisti impegnati a trovare il migliore compromesso tra l’arte ed il potere. Ma torniamo a Victor… ha la mia stessa età ma sembra mio nonno, è tarchiato e panciuto, i capelli rasati che evidenziano le pieghe di pelle che scendono sulla nuca e gli occhi azzurri coperti da spesse lenti giallastre. La sua guida sicura ci consente di rilassarci sui sedili posteriori, come passeggeri inattivi per la prima volta nella storia dei nostri viaggi. Da guidatore esperto ed instancabile sorride con ironia alla nostra decisione di aumentare le soste da tre a cinque nonostante si tratti per lui di un maggior guadagno. Il suo orgoglio supera decisamente il suo senso degli affari! Conoscendo a fondo il territorio ci offre il vantaggio di 90 km sulla strada asfaltata che corre parallela al fiume Lena ed alla M56, sullo stesso lato della città che ci stiamo lasciando alle spalle. Gli piace parlare, è curioso di sapere di noi e di Tatiana che gli siede accanto, l’unica con la quale possa comunicare. In un primo momento sembrano divertirsi entrambi, poi lei prende le distanze forse annoiata per la conversazione poco interessante, lui però non smette di volgere la testa alla sua destra… verso lo specchietto retrovisore? Al momento ci rifiutiamo di pensare che possa trattarsi di altro. La gamba di Vanni appoggiata sulle mie ginocchia impone la necessità di trovare un ospedale dove poter fare la medicazione ma la speranza svanisce presto di fronte ai pochi Cafè ed i piccoli modesti villaggi che incontriamo lungo la strada. Tommot diventa così l’unico possibile obiettivo di oggi e la prospettiva di una banja nella casa sul fiume rende più sopportabile il lungo viaggio. Quando arriviamo la casa è già occupata da una signora sdentata con la famiglia al seguito che non conosce il gentile signore che ci aveva ospitati una decina di giorni fa…. un mistero! Con i denti sempre più stretti cerchiamo altro pur sapendo che l’unica possibile opzione è l’albergo ufficiale del paese ospitato in un cadente edificio di legno nel quale oggi manca persino l’acqua corrente. Esasperata anche per le condizioni di Vanni penso a questo viaggio scomodo e sfortunato che non ha nulla di avventuroso né un contesto abbastanza piacevole da rendere sopportabili i numerosi disagi… non rimane altro che questo delirio che affrontiamo giorno per giorno sfiancati dai problemi che si sommano senza sosta. Ci mancava solo Victor che ora sta spudoratamente insidiando la nostra dolce Tatiana.

12 Luglio 2011

TOMMOT – NIRIUNGRI

La totale assenza di piacevoli distrazioni ci vede concentrati su quella che sta diventando una vera emergenza ovvero l’atteggiamento sempre più marcatamente maniacale di Victor nei confronti della nostra interprete che in preda ad un giustificatissimo attacco isterico ad un certo punto urla – voglio scendere! – La situazione non migliora quando Tatiana ripresasi dallo stress si siede accanto a me sul sedile posteriore. Tutto concentrato ad osservare la sua preda dallo specchietto retrovisore Victor è ora visibilmente contrariato dalla nuova disposizione dei nostri corpi e le sue labbra ricurve verso il basso fanno temere il peggio. La cena non migliora le cose e la studiata disposizione dei nostri posti attorno al tavolo non lo scoraggia dal rivolgere le sue libidinose intenzioni a Tatiana ormai sfinita. Non potendo rinunciare a lui chiediamo alla nostra dolce compagna di viaggio di resistere in cambio di una sistematica opera di difesa. Ci mancava solo questo!

13 Luglio 2011

NIRIUNGRI – TYNDA

Lo sviluppo di Tynda nasce dal suo ruolo di principale snodo della linea ferroviaria BAM e la sua stazione imponente e moderna sulla quale si innalza una torre bianca come l’edificio è l’elemento generatore della sua crescita. Al suo interno c’è tutto, un lussuoso dormitorio, la farmacia, un paio di bar, negozi ed anche un piccolo ambulatorio dove Vanni riesce ad avere una medicazione. La città contiene anche l’Arbita, un hotel di otto camere lusso contenute in un piccolo edificio immerso nel bosco di betulle. Rassicurati dal costo elevato che subisce un ulteriore aumento dopo il nostro arrivo, entriamo come in un paradiso accolti da una signora paffuta ed energica che dopo averci lasciato il tempo di disfare le valigie e di aprire i rubinetti ci annuncia seccata dalle proteste che a causa di una manutenzione in corso l’acqua calda non c’è…. come se questo fosse un particolare irrilevante. Per rendere più dolce la delusione ci offre però un motivo per rimanere assicurandoci che avremo la registrazione, obbligatoria per noi stranieri ma difficilmente ottenibile in questa desolata regione, ma solo al momento del saldo. Rimandato il pagamento al dopocena raggiungiamo un bel ristorante sul fiume dove la squisita ospitalità ci da una sferzata di piacevole ottimismo …. La zavorra che finisce col disperdere il piacere di questa serie di scelte fortunate è Victor che questa sera senza alcun pudore dà il meglio di sé pur sapendo di essere visto e la tensione cresce esponenzialmente ad ogni sguardo minaccioso che ora rivolge a me che lo guardo disgustata, La sua dimostrazione di arroganza a 360° e le due vodke bevute dopo cena ci fanno capire di essere tutti in pericolo, in balia di questo energumeno psicologicamente disturbato, troppo muscoloso e troppo introdotto nell’ambiente dei camionisti che percorrendo la nostra stessa strada potrebbero dargli man forte … il dado è tratto …. scatta il temuto allarme rosso! La guerra scoppia invece al nostro rientro in hotel, contro la paffuta signora che continua a chiedere con insistenza il saldo pur non sapendo cosa sia la registrazione che ci aveva garantito e di fronte a Tatiana che giustamente sfoga la sua rabbia di fronte al raggiro ci urla di scegliere se andarcene o accettare le sue nuove condizioni. Orgogliosi e masochisti andiamo via sbattendo la porta. E’ tardi ma non ci perdiamo d’animo e stringendo ancora i denti già più che sbriciolati inseguiamo inesistenti alternative. Va a finire che Victor occuperà l’unico posto disponibile nel dormitorio della stazione, io e Vanni dormiremo in tenda nel parcheggio trafficato della stazione e Tatiana pur di starci vicina si accomoderà sul sedile posteriore di Asia e non chiuderà occhio per la seconda notte di seguito, come noi del resto che in quanto custodi dell’oggetto dei suoi desideri temiamo che l’energumeno venga a molestarci. Che situazione di merda!

14 Luglio 2011

TYNDA – SKOVORODINO

I 160 km che ricordavamo come i più duri ci sembrano ora i migliori di tutto il viaggio e se inseguire un desiderio alleggerisce il cuore il nostro sta volando nella prospettiva di scaricare finalmente il mostro che però offre resistenza fino all’ultimo minuto. L’ultimo colpo di coda viene scagliato nell’atrio della stazione quando giunto il momento di acquistare il suo biglietto di ritorno a Yakutsk tergiversa dicendo che non ha ancora deciso se andare subito o rimanere con noi un’altra notte. Con la forza della tranquillità ritrovata facciamo l’acquisto e incuranti delle sue proteste lo congediamo dopo avergli scattato una fotografia accanto ad Asia, tanto per rabbonirlo dice Vanni che ha avuto l’idea, e per distoglierlo dal nostro disgusto…. in fondo mancano ancora quattro ore alla sua partenza e lui continua a guardarmi malissimo, ma siamo finalmente usciti dal limbo e Skovorodino per quanto povero e triste possiede un servizio per noi fondamentale, una stazione. Per assecondare la nostra mania di persecuzione, il minimo che potesse accaderci viste le circostanze, rendiamo Asia invisibile parcheggiandola nel cortile chiuso dell’hotel Arigus, il cui costo al momento della prenotazione ci aveva illusi di trovare una qualità adeguata e per lo meno il bagno in camera. Della nostra prenotazione telefonica come spesso è accaduto non c’è traccia ma non esistono alternative, le lenzuola sono pulite ed il proprietario armeno è simpatico e disponibile nonostante Tatiana mantenga la dovuta distanza spinta dalla forte intolleranza nei confronti di tutti quelli che non sono russi d.o.c. Con una certa signorilità lui però va oltre accompagnandoci in un ristorante, stranamente azero. Il secondo aspetto positivo di Skovorodino, dopo la stazione è proprio questo, la distensione fra armeni ed azeri ancora impegnati in una guerra che prosegue dopo decenni.

15/16 Luglio 2011

SKOVORODINO – BELOGORSK – BIROBIDZAN

Oggi dopo tanto tempo ho l’onore di conquistare il volante di una delle creature di Vanni, con Tatiana al mio fianco in veste di distratta navigatrice e Vanni disteso a poppa in qualità di ferito ci avviamo verso Belogorsk, la prima tappa del relativamente lungo viaggio verso Kabarosk. Con la leggerezza della serenità riconquistata troviamo il piacere di viaggiare sulla strada larga e perfetta che si snoda lungo ampie vallate, non più boschi ma un verde disteso nel quale gli alberi si intravedono appena in lontananza, piacere amplificato dall’ aver trovato qui l’agognato liscio asfalto sul quale voliamo ora tra i villaggi di case di legno che punteggiano il territorio. Vanni però non è per nulla a suo agio nel ruolo di passeggero e tormentato dal dolore alle ferite si fa così insopportabile da farci prendere in seria considerazione l’idea di scaricarlo. Conquistiamo Belogorsk verso sera appena in tempo per una cenetta al ristorante del teatro i cui profumi compensano l’ odore di muffa delle nostre camere all’hotel Belogorsk. Un particolare che ci sarebbe parso trascurabile se non si fosse sommato alla difficoltà con la quale le abbiamo ottenute, quasi implorando l’impiegata perché anche qui come altrove la nostra prenotazione risultava non essere mai stata fatta…. l’ostilità nei confronti dei turisti occidentali inizia ad essere piuttosto scomoda. Il piccolo centro storico che vediamo con una breve passeggiata non è poi così male come lo avevamo immaginato. I bassi vecchi edifici che bordano le strade tranquille conferiscono a questo piccolo centro urbano un’atmosfera rilassante e piacevole …. Vanni intanto è sparito senza dire una parola. La sofferenza che gli procura la ferita e le medicazioni che tutti gli ospedali interpellati finora gli hanno negato e che per questo deve farsi da solo lo stanno mettendo a dura prova, così come il disagio che gli dà proseguire il viaggio senza la leggerezza del sentirsi in forma e con la consapevolezza di non poter far fronte alle situazioni di emergenza che potrebbero crearsi …. non oso immaginare come starei io nelle sue condizioni. A migliaia di chilometri da Yakutsk troviamo un internet café a Birobidzan, la città che Stalin fondò per raccogliervi buona degli ebrei russi che desiderava allontanare e che noi raggiungiamo dopo aver lasciato Belogorsk. Per metterli a dura prova offrì loro questo territorio che nei primi decenni dello scorso secolo era circondato dalle paludi che lo rendevano particolarmente inospitale. Di quella situazione oggi non vi è traccia ed i viali alberati rendono la città piacevole e rilassante. Non mancano nemmeno i luoghi di interesse, non molti in verità ma che troviamo senza dover troppo cercare grazie all’aiuto di un taxista desideroso di mostrarci quanto di meglio la sua città ha da offrire a chi come noi si fermerà solo un paio di giorni. Il bel teatro sul fiume per esempio, la cui vetrata articolata in sporgenze di vetro colorato rende l’ edificio interessante e molto anni ’70, così come i fantastici lampioni ad albero i cui rami stilizzati terminano con lampade a palloncino…. bellissimi! Ad aumentare il piacere di essere qui è stata la sorpresa di vederci assegnare le camere senza dover lottare. L’impiegata dell’Hotel Vostok infatti pur avendoci accolti con una certa sufficienza ha confermato la nostra prenotazione consentendoci così di avere il tempo di scegliere senza fretta un ristorante carino per una cena come si deve, sortita della quale Vanni, dopo giorni di forzato riposo ha voglia. Raggiungiamo così il ristorante più “esclusivo” della città che si affaccia sul fiume a qualche chilometro dal centro. Nemmeno la nostra vivace immaginazione poteva prevedere ciò che è accaduto a pochi metri dall’ingresso dove un “buttafuori” al femminile ci fa notare che non siamo abbastanza ben vestiti per poter entrare. Considerando il look dei russi appena entrati scoppiamo in risate così sonore da farla sentire in imbarazzo. La nostra spontanea reazione pur senza volerlo ha funzionato permettendoci di accedere ad un tavolo nel più alto dei ballatoi che si affacciano sulla pista da ballo, abbastanza defilato per ospitarci senza che nessuno si accorga di noi…siamo stranieri e così si può chiudere un occhio, ma non entrambi ! Divertiti iniziamo a considerare che Il locale è piuttosto provinciale ed è difficile per noi percepirne l’ostentata esclusività di fronte alla pecca clamorosa di servire il vino bianco a temperatura ambiente. In compenso ci godiamo lo spettacolo delle attempate signore colpite da luci rosse e verdi che scatenate accompagnano il ballo con gestualità teatrale. Poi come per vendicarsi Vanni estrae dalla busta frigorifera che ha con sé la sua fetta di parmigiano ormai avariato spargendo attorno a noi una nuvola di odore non proprio piacevole…. avrebbero fatto bene a lasciarci fuori.

17 Luglio 2011

BIROBIDZAN – KHABAROVSK

Eccoci a Khabarovsk, la capitale dei territori orientali della estesa regione siberiana. La raggiungiamo percorrendo il lungo ponte sul fiume Amur, il confine naturale che ne blocca l’espansione verso Ovest. E’ abbagliante per i suoi colori chiari che si esaltano alla luce del sole alto ed è estesa come ci si aspetta da una capitale. Il nostro entusiasmo non è solo legato alle aspettative che dopo giorni di boschi e piccole centri urbani si sono concretizzate arrivando qui, anche la prospettiva di rivedere Sergej ci rende felici, è la prima volta che un conoscente locale diventa un obiettivo umano da raggiungere strada facendo. L’Hotel Parus occupa un elegante edificio in stile neogotico di fine ottocento sui cui prospetti i mattoni rossi e grigi evidenziano i movimenti delle pareti con paraste, marcapiani e sporgenze. Il calore del primo pomeriggio invita ad entrare, oltre i marmi bianchi e neri dell’ingresso, verso il bancone dietro il quale un paio di signorine in uniforme scura ci accolgono con un gelido sorriso. Nonostante l’eleganza dell’hotel ci avesse fatto sperare in una gestione attenta e scrupolosa, il responso negativo si ripercuote su di noi amplificato dalla stanchezza e da tutti i rifiuti collezionati finora. La prenotazione non risulta sui tabulati nonostante sia stata confermata telefonicamente un paio di giorni fa e le uniche camere disponibili sono una delux ed una suite dai prezzi proibitivi. Dopo le inutili insistenze di Vanni che mostrando inutilmente il numero della nostra prenotazione inizia ad urlare esibendosi nel suo copione di risposta in caso di estrema necessità, arriva Sergej accorso per cercare di risolvere l’emergenza. La meno gelida delle impiegate, colpita forse dal suo fascino, inizia ad avere un atteggiamento più conciliante e cercando con scrupolo trova un paio di doppie standard molto confortevoli in questo hotel che ci rendiamo presto conto essere vuoto. Nulla di strano per noi che troppo spesso abbiamo avuto questo tipo di accoglienza…. e dire che il nostro look non è poi così male! Le luci colorate della città in versione notturna, le vetrine luminose e le fontane nel parco che vediamo dai finestrini del suo macchinone introducono la piacevole serata con la famiglia che ci accoglie con il calore di una squisita ospitalità ed il tavolo imbandito con dolci e bevande tipiche. La figlia Julia ha pochi anni è bionda, timida, dolce e così generosa da regalarmi un suo disegno, una piccola bambola di plastica, un piattino di ceramica decorato con figure di zucchero, ed il piacere di averla accanto.

18/21 Luglio 2011

KHABAROVSK

Grande e dal sapore internazionale la griglia di strade che salgono e scendono adattandosi ai lievi movimenti del terreno la fanno sembrare una San Francisco siberiana dal fascino squisitamente sovietico. La sua storia è lungo le strade del centro, negli edifici alti e bassi, decò, neoclassici, razionalisti o semplicemente anonimi, intonacati o rivestiti di pietra, di mattoni o di legno che riassumono il suo passato recente e la vivacità degli abitanti riemersa con gioia dopo il rigido clima invernale nel calore di questa breve ma intensa estate. Le due cattedrali ortodosse svettano imponenti per la loro spiccata verticalità, belle soprattutto per l’effetto che creano sulla skyline della città. Alte e sottili con cupole blu e oro sono le necessarie escrescenze del tessuto urbano, il simbolo della libertà di culto riconquistata. Oggi le osserviamo dal battello che si muove lento sulle acque dell’ampio fiume Amur. Viaggiamo in compagnia delle famiglie che lo hanno scelto per un disordinato pranzo al sacco, i più giovani grassottelli e chiassosi per il piacere di questa brezza che ci salva tutti dalla liquefazione. Statue di bronzo accanto a particolari edifici neoclassici, macchie di verde, le banchine dei porticcioli, un paio di ciminiere, il lungo ponte e l’hotel Parus che preceduto da un giardino fitto di alberi rimanda ai manicaretti già sperimentati ed a quelli che consumeremo questa sera in compagnia della famiglia di Sergej e di Julia della quale mi sono letteralmente innamorata. La sosta in città è stata un piacere anche per Vanni che dopo una settimana di tentativi andati a vuoto ha trovato qui una clinica disposta a medicarlo … un piccolo segnale di distensione che a questo punto ci voleva.

22 Luglio 2011

KHABAROVSK – VLADIVOSTOK

Una nuvola di polvere e l’inevitabile ingorgo precedono il nostro ingresso a Vladivostok. Ulteriore testimonianza della zelante opera di riqualificazione delle principali arterie stradali sono i lavori in corso che fervono in questo caso per dare al grande porto siberiano un ingresso adeguato alla sua importanza. Il relativamente lungo viaggio verso Vladivostok è stato scandito dalle soste necessarie ad una attenta elaborazione del piano di attacco all’hotel Hunday. Visti i precedenti dovremo essere pronti ad affrontare con stile l’ennesimo probabile rifiuto, il temutissimo niet che l’impiegata di turno arroccata dietro al bancone della reception potrebbe scagliare contro di noi subito dopo il nostro arrivo. Abituata alle stravaganti tattiche di Vanni, senza più pudori e lontana dalla timida innocenza dei primi tempi Tatiana ora ride divertita di fronte alle battute che dovrà recitare al telefono, il copione non è molto diverso dagli altri, ma sempre così estremo da risultare imbarazzante… ora solo per me. Più che per far fronte ad un eventuale rifiuto la strategia è finalizzata all’ottenimento del massimo sconto… perché in qualità di supervisori delle strutture ricettive della città in vista della convention che si terrà nel 2012 ???, abbiamo il diritto di essere trattati con un certo riguardo. Tatiana cede solo sul finale, quando Vanni non contento del 20% di sconto che il manager ci ha offerto in via del tutto eccezionale, in preda al delirio le chiede di richiamare per ottenere un cifra tonda che però gli viene negato …. e dire che Vanni è la persona più generosa che abbia mai conosciuto! …. ma il tema ed il contesto ora sono diversi ed il suo talento per la contrattazione unito al piacere di coprire il ruolo di supervisore che ha inventato per sé hanno partorito un accanimento non necessario. Giocare gli piace e soddisfatto per il risultato ottenuto fa il suo ingresso trionfale nel foyer del prestigioso hotel internazionale…. pantaloncini corti e fascia con tracce di sangue sul polpaccio. La manager ci guarda sbigottita di fronte al nostro look di viaggiatori trasandati ma da vera signora non infierisce. Risultato: Vanni è felice, Tatiana è sollevata dal fatto di non dover più mentire per assecondare i capricci di Vanni ed io vorrei sfoggiare una macchina fotografica reflex per rendere almeno credibile il mio ruolo di reporter. La lunga esperienza sul fronte siberiano ci ha infine visti vincitori su tutta la linea in questo ultimo approccio con le ostili strutture alberghiere, abbiamo avuto le nostre camere senza dover lottare e ad un prezzo molto conveniente…. insomma un successo!

23/26 Luglio 2011

VLADIVOSTOK

Vladivostok è sotto di noi, oltre la finestra dell’undicesimo piano, riassunta dentro la cornice di legno scuro. Aggrappata alle colline raccolte attorno alla baia sembra generata dal mare e dipendente dall’attività del porto che segue tutto il profilo della costa con banchine, gru e navi ormeggiate. Le navi da guerra invece, raggruppate in prossimità della piazza principale, sono una sinistra macchia grigia, un monito ed un ricordo della principale attività del porto nei decenni passati. Quelle grandi e pesanti di contenitori colorati raccontano invece la recente e fiorente attività commerciale che ha accelerato lo sviluppo e reso necessaria la realizzazione di grandi strutture come il grande ponte non ancora terminato che consentirà il collegamento tra le due sponde del canale interno. Il traffico non manca in questo polo di distribuzione verso l’interno delle auto importate dalla vicina Corea e dal Giappone, comprese quelle dei piccoli speculatori che avevamo visto viaggiare lungo le strade che portano ad occidente. La sua conformazione naturale la rende bella e le tracce del suo commercio sono visibili solo nella varietà dei prodotti internazionali offerti dai negozi, compreso il tabacco, i sigari ed il tè sfuso. Gli artisti espongono le loro opere in diverse gallerie sparse nel centro ed i fiori colorano le bancarelle del mercato coperto…. persino gli uffici postali sono stati una piacevole esperienza grazie allo zelo delle impiegate addette alla spedizione dei pacchi che subito dopo la compilazione dei moduli, cuciono a macchina dietro il bancone i sacchi bianchi che conterranno zaini, borse e pacchi vari conferendo così un monocromatismo ordinato alle cataste accumulate sui carrelli. Mai viste macchine da cucire e metri di stoffa e fili negli uffici postali! I quartieri più datati danno alla città quel piacevole sapore familiare del quale approfittiamo con piacevoli passeggiate e le farmacie offrono tutti i prodotti che ora Vanni, da esperto infermiere, estrae dalla sua valigetta del pronto soccorso. Garze, disinfettanti, cerotti ed unguenti vari. Siamo arrivati al capolinea e sebbene ci sembri impossibile ora dimenticare i disagi che potevano esserci risparmiati ed i cui segni rimarranno per sempre incisi sulla gamba di Vanni, sembra che la siberia abbia voluto con quest’ultima tappa farsi perdonare prima della nostra partenza. Viaggeremo a bordo del traghetto della Estearn Company che salperà diretto in Corea e poi il Giappone che nonostante i continui terremoti e la radioattività che lo hanno reso particolarmente inospitale rappresenta a questo punto un piacevole miraggio…. il 27 luglio sarà un giorno da festeggiare!


Menù delle città

Percorso della tappa

Fotografie
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Cambia Tappa

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22 Corea Giappone


27/28 Luglio 2011

VLADIVOSTOK – MATSUE

Avrei voluto portare Tatiana con noi. Salutarla per sempre questa mattina sotto la pensilina dell’hotel è stato strano ed innaturale quanto lasciare a metà strada una cara compagna di viaggio. Col passare dei minuti però la gioia di raggiungere presto il Giappone ha finito col diminuire il pathos del momento ed ora a bordo della nave da crociera Eastern Dream non vediamo l’ora di salpare lasciando alle nostre spalle le navi da guerra grigie come la nebbia di questa mattina e Vladivostok che intravediamo da questa prospettiva ritta sul liquido salato della baia. Vanni freme perché non è ancora riuscito a raggiungere Asia, la nostra appendice che speriamo sia stivata sotto di noi. Intanto i pochi europei si aggirano negli spazi comuni distribuiti su tre livelli sotto dimensionati come le cabine che non vale la pena occupare se non per dormire …. la mia al primo livello e quella di Vanni al terzo anche se al momento dell’acquisto dei due biglietti la possibilità di dormire in due cuccette vicine non ci era stata negata …. ma due giorni passano in fretta e noi siamo felici. L’insistenza di Vanni che non molla mai scaturisce in un colpo di scena inaspettato quanto comodissimo e così anche grazie ad una svista del manager finiamo con l’occupare grazie ad un cospicuo sovrapprezzo la migliore cabina di bordo, la Royal Suite. Boiserie di legno scuro, copriletto di raso sui due comodi lettoni ed un bagno tutto per noi. Comodamente seduti sul tavolino di fronte all’oblò, guardando il mare gustiamo il nostro tè caldo ed il lento procedere…. adoro Vanni. Infine si materializza Louise, una giovane ragazza inglese che seduta ad un tavolo mi chiede se siamo europei. Nel corso della conversazione apprendo che vive a Tokyo da quattro anni e parla un giapponese quasi perfetto, sarebbe perfetta come interprete e così non ce la lasciamo sfuggire. Beviamo un drink insieme che speriamo non sarà l’ultimo e trascorriamo un intero pomeriggio in sua compagnia durante la sosta a Donghae – Si, la città marittima della Corea del Sud nella quale siamo attraccati. Un pranzetto a base di pesce crudo nella fish town ed il desiderio di poter parlare un inglese fluente come il suo. Domani approderemo a Sakai Minato, il porto di Matsue.

29 Luglio 2011

MATSUE

Quando senza avere confermato nulla vediamo Louise oltre il controllo dei passaporti immaginiamo abbia accettato la nostra proposta e questo ci solleva dal pensiero di dover affrontare senza interprete questo paese nel quale pare non sia facile trovare qualcuno che parli la ormai internazionale lingua inglese. …. Alla dogana però si fanno capire benissimo e dopo aver ispezionato ogni valigia eseguono come da copione il controllo dei documenti dell’auto. Se Louise avesse saputo cosa la aspettava si sarebbe eclissata subito dopo averci lanciato un cordiale “hello” perché scrupolosi fino all’esasperazione i doganieri scoprono immediatamente una cosa della quale non ci eravamo accorti, ovvero che il numero di telaio stampato sulla targhetta dell’auto non corrisponde a quello scritto dall’impiegato ACI sul carnet de passage, il passaporto di Asia necessario per entrare in territorio giapponese. Una storia iniziata male quella del carnet perché quando a Vladivostok ci eravamo accorti che era scaduto si era innescato un veloce scambio di email con l’ufficio estero dell’ACI di Roma dal quale però avevamo ricevuto un foglio di proroga. Ora eccoci di nuovo nei pasticci…. per un errore di distrazione, come direbbe una maestra, nella trascrizione della lunga sequenza di numeri e lettere che identifica inequivocabilmente Asia. Per sapere se saremo espulsi o se sono disposti a chiudere un occhio dovremo aspettare il responso del capo della dogana e della JAF, l’equivalente giapponese dell’ACI. Superato con coraggio il problema della ferita di Vanni che aveva messo in serio dubbio il proseguimento di questo nostro viaggio non avremmo mai pensato che un numero avrebbe potuto farlo naufragare definitivamente. Eppure ora siamo in attesa del responso che arriverà solo fra quattro ore e dall’espressione che leggiamo sui visi degli impiegati della dogana intuiamo di non avere molte speranze e la tensione cresce esponenzialmente col passare dei minuti. Il seguito della giornata ruota attorno al carnet, compreso l’andirivieni tra il porto e l’ufficio della JAF a 20 km di distanza. Per farla breve quando poco dopo le 15 arriva il sospirato responso favorevole anziché saltare di gioia iniziamo a piangere per lo stress accumulato in queste interminabili ore nel corso delle quali avevamo preso in considerazione di dover ripiegare verso l’unica soluzione possibile in caso di responso sfavorevole ovvero di spedire Asia in Italia lasciando con lei immediatamente il Giappone…. le conseguenze di quel piccolo errore sarebbero state devastanti. Ma non è ancora finita perché superato lo scoglio più grosso se ne pone subito un altro perché non troviamo compagnie disposte ad assicurare un’auto italiana. Per fortuna i disponibilissimi impiegati che stanno lavorando per noi da ore continuano gentilmente ad assisterci esplorando telefonicamente il mercato assicurativo locale. Solo alle sette di sera dopo una bella strigliata da parte del capo della dogana lasciamo stremati il porto di Sakai Minato a bordo di Asia, finalmente ripuliti da errori ed omissioni… che sollievo! In fondo siamo stati fortunati perché senza Luoise che ci ha assistiti parlando in perfetto giapponese non saremmo probabilmente riusciti a cavarcela. L’arrivo al business hotel Route Inn Matsue è stato come il raggiungimento di un approdo sicuro dopo la fatica di una tempesta durata ore… modesto ma pulito ci introduce alle dimensioni ridotte degli spazi abitativi tipicamente locali ed alla squisita gentilezza del popolo giapponese che si esprime ora con la conferma delle camere prenotate e l’aiuto a portare i nostri trolley dall’auto all’atrio dell’hotel. La scelta per la cena ricade sul localino meravigliosamente verace a due passi dall’hotel dove dopo aver incastrato i piedi scalzi sotto il basso tavolino di legno gustiamo i filetti di pesce crudo, il brodo di alghe ed un’ottima tempura di gamberi, il tutto scelto dal menu scritto con ideogrammi in corsivo, bello quanto incomprensibile … Louise ci ha salvati ancora, questa volta da una cena a sorpresa.

30 Luglio 2011

MATSUE – ISOLA NAOSHIMA

Il limite di velocità di 80 km/h consente a Vanni di procedere serenamente nonostante la guida a sinistra mentre Louise armata di navigatore dà indicazioni precise sulla strada da seguire. La segnaletica in lingua inglese anche se comoda non lo è quanto la nostra nuova efficiente compagna di viaggio. L’autostrada che stiamo percorrendo sale e scende circondata da basse montagne le cui perfette rotondità sembrano uscite da un’attenta progettazione, gli alberi in coni appuntiti sembrano stati scelti da esperti giardinieri a creare texture perfette ed anche le aree di servizio e le toilette che seppur perfette non sono però appena state lustrate da zelanti inservienti. Siamo arrivati in un altro pianeta? Niente affatto, è tutto merito della religione scintoista che sostenendo la pulizia come sinonimo di purezza interiore ha modellato la cultura giapponese, dedicata tra le altre cose all’ordine e ad un profondo rispetto per gli altri. Un mondo a parte questo, che gratifica e rassicura ma che fa sorgere un problema, dove buttare i mozziconi di sigarette? Immersi nel caldo afoso raggiungiamo in traghetto l’isola Naoshima e la casa tradizionale che ci ospiterà questa notte con porte scorrevoli in carta di riso e tatami sui quali dormire, un’esperienza da fare almeno una volta …. e questo silenzioso circondato dall’acqua è senz’altro il luogo più adatto. Di recente l’isola è stata dedicata all’arte che si trova sparsa ovunque, incastonata come un gioiello tra le vecchie case di legno del villaggio di Honmura. Ancora abitate da una popolazione anziana che ha accolto questa novità come una intrusione mal tollerata. Le case sono belle ed uno dei migliori accostamenti per le opere che andremo a vedere. Spostandoci a piedi fra le strette strade del villaggio ne apprezziamo le caratteristiche forse uniche come le pareti di legno nere del fuoco che le ha rese inattaccabili dalla salsedine. Tra un gatto steso davanti ad una porta e giardinetti zen arriviamo alla prima delle cinque installazioni che fanno parte del Art House Project. Inserite nel tessuto esistente o ospitate dentro i vecchi edifici. Iniziamo la nostra esperienza dalle tenebre di James Turrel che riempiono l’interno della Minamidera di Tadao Ando. Caratterizza l’ involucro il perfetto equilibrio di geometrie elementari, minimali ed assolute come il buio nel quale entriamo seguendo i dieci partecipanti alla performance. Tutti in fila indiana con la mano che cerca la via tastando la parete di ingresso. Un tuffo nella morte, angosciante come i demoni nascosti nelle nostre anime. L’inquietudine si alleggerisce solo dopo qualche interminabile minuto quando lievi chiarori, come variazioni di un nero meno denso crescono fino a rendere appena percepibile il rettangolo di fondo verso il quale ci avviciniamo a passi incerti, come se si trattasse di una illusione dettata dal puro desiderio di tornare alla vita. Ma il fondo non c’è e la mano affonda nella nebbia fredda che sottolinea l’illusione e l’immaterialità. Ora la stanza è visibile dall’occhio allenato alle tenebre ed all’inquietudine allontanatasi definitivamente si sovrappone la delusione dell’inganno. Le grandi emozioni si basano sull’illusione? geniale! Di tutt’altro genere il gioioso Haisha, l’edificio di Shinro Ohtake. Collezionista o meglio raccoglitore di materiali poveri e consunti dal mondo, ha costruito con essi un edificio scatolare a due piani, eclettico ed affascinante per le lamiere arrugginite, le assi di legno grigio di vita, le ruggini di metalli ondulati, gli scafi di piroghe, gli specchi che riflettono la vegetazione circostante e le scritte al neon, qualche lettera scrostata. Tutto questo avvolge una grande statua della libertà, bianca come il gesso e cinta da un neon rosso mentre le pareti chiare sono ricoperte di dipinti ad olio che riassumono parte del linguaggio artistico giapponese, essenziale e profondo. Yoshihiro Suda ospita invece nella sua Gokaisho, una casa tradizionale rimessa a nuovo, una grande superficie d’acqua profonda pochi centimetri dalla quale emergono sequenze di numeri luminosi, squadrati e colorati che scorrono casuali a ritmo frenetico contenuti in cubetti scuri. Il significato dell’installazione sfugge, ma trovo interessante un’altra sua opera, una specie di finestra sulla cui superficie traslucida sequenze di tre numeri sempre diversi sono visibili per le veloci trasparenze che si susseguono. L’opera di Hiroshi Sugimoto sonda invece il mistero dell’aldilà attraverso una particolare interpretazione del santuario scintoista appoggiato in questo caso su uno zoccolo di pietra contenuto in un ampio rettangolo di sassolini chiari immersi nel verde. Il particolare più interessante è la scala costruita con spessi blocchi di vetro. Ha inizio dalla cripta illuminata dal fioco chiarore della trasparenza, simbolo dell’ascesa al divino che sale in alto nel piccolo tempio di legno. Altra chicca è il Chichu Art Museum di Tadao Ando la cui genialità è la vera protagonista dell’espressione artistica dell’isola. Entriamo con piacere in questo santuario dell’arte all’interno del quale le opere non sono esposte ma sono parte integrante dell’architettura in armonia perfetta con lo spazio immaginato per esaltarle e stimolare al massimo l’esperienza emozionale ed intellettuale dei fruitori. Una esperienza anche fisica, i piedi scalzi aiutano in questo senso, all’interno di questo contenitore ipogeo, rispettoso della natura che lo ha inghiottito sotto terra. Il filo conduttore è l’aspetto escatologico dell’arte contemporanea, il suo essere veicolo di indagine dell’immateriale come l’opera di James Turrel, impalpabile, assente se non nella forte emozione che crea. In questo caso Turrel ha simbolicamente inquadrato una porzione di cielo sul soffitto di un ambiente verticale e quadrato come l’apertura in alto. La panca di pietra che corre lungo il perimetro è il legame con la terra materiale ed anche il punto di osservazione di noi spettatori. Il cielo e la luce invece rappresentano l’immateriale ed il contenitore è il mezzo, lo strumento necessario per farli esistere. Il piacere dell’esperienza deriva dalla forza della complessa semplicità e dalla potenza dell’emozione che suscita. Adoro Turrel! Il tema metafisico è sviluppato anche dall’opera di Walter di Maria che ha fatto installare una grande sfera di granito al centro di un piano orizzontale compreso fra due rampe di scalini larghi quanto l’ampia sala. La luce zenitale ne esalta la presenza che riempie lo spazio, la scala sottolinea per contrasto il miracolo della sua immobilità, la dimensione e la perfezione della sua forma la forza racchiusa nella semplicità. Il tema è sviluppato Nella seconda opera di James Turrel, introdotta da quattro scalini neri che saliamo per entrare nella bassa apertura rettangolare che inquadra l’azzurro. L’immersione nel colore è totale, il fondo indefinito invita a cercare un ostacolo che non c’è, mentre la mano è avvolta in una nebbiolina fresca. La parete non c’è seppur visibile…. il mistero evidenzia la capacità dell’uomo di creare l’illusione. Il relax arriva con l’ongji, la versione giapponese del bagno turco o della banja russa. Un modo diverso di lavarsi in compagnia. Shinro Ohtake ha creato per questo un ambiente colorato e divertente nel quale mi trovo nuda in compagnia di Louise e di altre otto giovani ragazze senza cellulite. Imitando le altre mi siedo sul basso seggiolino di plastica di fronte al mio rubinetto con doccetta che mi consentirà di sciacquarmi dopo una bella insaponata. E’ fondamentale essere pulitissimi prima di immergersi nella bassa vasca piena di acqua caldissima dove si si può socializzare scambiando due parole… giusto due perché il calore mi fa sgusciare fuori spesso per una doccia fredda. Intanto un grande elefante di plastica osserva immobile sopra l’alto muro noi signore ed i dieci uomini che stanno eseguendo lo stesso rito dall’altra parte. Siamo pronti per una bella dormita sul tatami della Guesthouse Yokonbo Naoshima, la cui parete scorrevole di carta di riso si apre sull’ordinato giardino e sul mare. Una esperienza bella, rilassante e stranamente comodissima.

31 Luglio 2011

ISOLA NAOSHIMA – KYOTO

Kyoto ci accoglie con due treni che si muovono in direzioni opposte sulle rotaie inclinate che si incrociano sospese sulla strada che seguiamo verso il centro città…. un effetto speciale che ci introduce questa volta nel mondo High-Teck giapponese. Gli edifici ci accompagnano sui due lati, stretti ed alti come le antiche case a schiera medievali, qui per del grande valore della superficie edificabile di questa grande città. Cresciuta attorno ad una griglia di strade ortogonali non così larghe come le avevamo immaginate. Ordinata e vivace non è congestionata dal traffico e le poche aree verdi sono i grandi giardini imperiali dove la divina figura amava gironzolare nel verde confezionato come un modello di equilibrio, tra gli alberi fioriti, i ponticelli, gli specchi d’acqua ed i pesci colorati che partecipano alla perfezione dell’insieme. Quella che vediamo raggiungendo il centro è invece la città tutta costruita, gli edifici sempre più alti e densi dove lo spazio di un alberello rappresenta un lusso almeno quanto un posto auto. Il Royal Hotel & Spa non è costosissimo se prenotato con www.booking.com, in compenso si trova nel cuore di Kyoto e la nostra camera è confortevole come ci aspettavamo, lontana dallo standard dei business hotel dove gli spazi sono compressi per contenere il maggior numero di ospiti. La sua posizione ne fa il nostro epicentro dal quale possiamo facilmente raggiungere con una breve passeggiata le aree commerciali ed il Ponto Cho, l’unica strada della città larga non più di due metri rimasta pressoché intatta nel tempo. Piena delle insegne dei ristoranti che ne occupano i due lati, le lanterne rosse ed i menu scritti con eleganti incomprensibili ideogrammi è pittoresca anche se estremamente turistica … ma la passeggiata è piacevole e per la cena avremo una quantità di opzioni…. basta scegliere una fra le tante piccole porte lungo la strada, scivolare lungo lo stretto corridoio ed accomodarsi ad un tavolo al piano terra, al primo piano o nella terrazza sul fiume?… per il menu non ci sono problemi, riproduzioni perfette dei piatti proposti sono esposti accanto alle porte di ingresso…. Alla fine però vince il richiamo dello squisito king crub, anche se il ristorante che lo propone non è così vicino al Ponto Cho. Lo avevo visto camminando lungo le gallerie vicine all’hotel e l’idea di andare è rimasta per tutto il pomeriggio…. che squisitezza! Il ristorante è il Kanidouraku Kiyoutohonn-Te…. il nome è difficilissimo ma non è impossibile trovarlo perché sulla facciata dell’edificio è appeso un granchio enorme. Il rito del piede scalzo anche nei ristoranti presuppone una doverosa pulizia dei calzini, le scarpe devono poi essere appoggiate a terra vicine l’una all’altra…. per noi ancora inesperti è la signorina in kimono che provvede ad allontanarle ed a riportarle poco prima dell’uscita, nell’ apposito spazio dedicato al rito… penso che comprerò un paio di comode ciabatte, Vanni invece sogna le sue dure e pesanti amate Church. Appartati dietro un separé di carta siamo subito raggiunti da una sorridente signorina vestita di un kimono come tutto il personale, si avvicina a piccoli passi con un menu illustrato che riporta le foto esatte dei piatti che potrebbero arrivare sul tavolo. Gli inchini accompagnano ogni sua parola ed il rito dell’apparecchiatura e del servizio sembrano seguire un rigido protocollo, come una danza ripetuta centinaia di volte. Il cibo è una squisitezza e si può stranamente fumare, è l’unico posto nel quale stranamente non è vietato.

01 Agosto 2011

KYOTO

L’invito all’acquisto è spinto al massimo dai negozi che si dilatano verso l’esterno e dai commessi che invitano ad entrare lanciando parole musicali. Sentirli è divertente anche per l’enfasi della gestualità tipicamente nipponica che sempre accompagna le parole… soprattutto gli inchini ripetuti più volte ad ogni saluto o ringraziamento, lontani dal sembrare eccessivamente servili solo perché fatti da tutti indistintamente. Per il momento non acquistiamo nulla ed iniziamo la vera esplorazione della città, interessante non solo per i numerosi antichi templi buddisti e scintoisti che la rendono famosa, ma anche per gli edifici contemporanei progettati da alcuni degli architetti giapponesi più famosi, come la stazione dei treni di Hiroshi Hara che non avremmo mai immaginato così sorprendente. Un tempio della tecnologia e dell’arte distribuito su diversi livelli aggettanti sul grande atrio. Coperto da volte reticolari che si incrociano a sessanta metri dal suolo ed alte passerelle di vetro che collegano ai piani più alti le gallerie di negozi, ristoranti e piccoli musei. Inclinate e sospese, raggiungiamo i percorsi in quota salendo le diverse rampe di scale mobili che salgono dai due lati opposti dell’atrio. Dei treni non vi è traccia perché le rotaie si trovano nei piani interrati. Contenti come bambini di fronte alla sorpresa di un bel gioco raggiungiamo il top dal quale osserviamo come canne d’organo gli edifici più alti della città da qui completamente visibile. Percorriamo le vertiginose passerelle e saliamo al giardino della felicità sulla terrazza all’aperto…. un incanto che però finisce con lo sminuire la bellezza di ciò che vediamo poco dopo, una coppia di templi scintoisti collegati da un corridoio esterno. E’ il Nashi Hongwanji edificato nel dodicesimo secolo, patrimonio dell’umanità come gli altri quindici sparsi nella città rumorosa che li circonda inghiottendoli. Gli edifici di legno sono coperti da tetti a pagoda, all’interno sulle pareti di fondo gli elaborati altari dorati ospitano i Buddha che si specchiano sui pavimenti tirati a lacca. Attorno alle tre sculture un paio di monaci in impeccabili abiti inamidati, belli come se fossero usciti dal set di un film storico si muovono come ipnotizzati e con gesti meccanici seguono un preciso rituale per ordinare oggetti già perfetti e per sostituire un cero appena acceso nel rispetto della maniacale gestione del tempio…. la spontaneità sembra proprio non far parte della cultura giapponese. Non molto convinti raggiungiamo il vicino giardino imperiale Shosei-en risalente al 1640. Purtroppo che non possiamo godere dello spettacolo della fioritura primaverile né dei colori dell’autunno. Così come lo vediamo oggi non è particolarmente bello ma come tutto qui in Giappone è molto ordinato e progettato in modo ineccepibile. Cena al ristorante iraniano a pochi passi dall’hotel…. una buona alternativa.

02 Agosto 2011

KYOTO

Gli alti edifici della city sfumano verso il Museo Nazionale di Arte Moderna, opera di Fumihiko Maki. Lo raggiungiamo a bordo di un taxi nero, i migliori qui in città. Auto lucide e sportelli posteriori che si aprono automaticamente, i sedili sono coperti da una fodera bianca come la camicia ed i guanti dell’autista, i pantaloni sono neri come le loro cravatte, tutto è perfetto come la loro cortesia e professionalità. Alcuni di loro capiscono qualche parola inglese anche se non sanno leggerlo, ma è sufficiente per raggiungere il museo scatolare e rivestito di pietra grigia, piuttosto anonimo a differenza degli interni disegnati per offrire piacevoli prospettive e per accogliere oggi una estesa collezione di opere di uno dei fondatori del costruttivismo degli anni ’20 e ’30, il mitico Moholi Nagy. Filmati sperimentali che illustrano la vita di allora, le tele ed una stupefacente scultura, il Light Space Modulator del 1922/30, un patchwork di pezzi metallici che ruotano attorno al suo asse creando bellissimi giochi di ombre sulle pareti della sala. Dopo il museo sull’isola Naoshima Tadao Ando continua a regalarci il piacere dell’immersione in architetture perfette anche qui a Kyoto con il Garden of Fine Arts ( indirizzo: Shimogamo Hangi-cho, Sanyo – ku) Essenziale ma incisivo il giardino è disegnato con pochi semplici elementi orientati secondo direttrici inclinate che si intersecano formando angoli acuti. I setti di cemento armato aperti in ampi portali e la rampa che li attraversa scendendo sono gli elementi materiali del progetto. Il percorso offre la possibilità di osservare oltre le balaustre di vetro le poche opere esposte sulle pareti perimetrali che ne definiscono l’ambito. Riproducono su ceramica alcune opere d’arte classica così poco interessanti rispetto al contesto nel quale si collocano da sembrare piuttosto che le protagoniste il pretesto che ha giustificato la realizzazione di questo giardino senza vegetazione, nel quale il suono dell’acqua che scende dalle pareti verticali verso basse geometriche vasche d’acqua conferisce alla passeggiata l’unico piacevole richiamo alla natura. Impossibile uscirne senza il desiderio di rientrare immediatamente in questa galleria d’arte a cielo aperto nella quale il vero protagonista è il mitico Tadao Ando. Questa terza giornata a Kyoto continua sull’onda del piacere estetico anche la sera quando la scelta del ristorante cade sulla sventolante bandiera francese del Douze Gout adocchiata ieri nei pressi della galleria vicina all’hotel ( tel. 075 221 2202. www.douze-gout.com email: info@douze-gout.com ). Piacevolmente arredata, la piccola sala al piano terra è abbastanza invitante da convincere ad entrare, ma poi succede una cosa strana. Il cameriere ci scoraggia dal sederci esibendo un menu scritto in giapponese ed affermando con qualche parola in un inglese stentato che a causa degli evidenti problemi di comunicazione non sarebbe piacevole per noi restare. L’atteggiamento è così strano da convincerci ad insistere, anche perché il ristorante è completamente vuoto e ieri avevo scambiato due parole in francese con il cuoco. Dopo un attimo il cuoco francese esce dalla porta della cucina ed il cameriere scontroso misteriosamente scomparso riappare dalla scaletta che porta al primo piano invitandoci ad accomodarci con un caldo sorriso ed un inglese da manuale. Basiti ci sediamo accanto al tavolo in legno di ciliegio dedicato alla rifinitura delle pietanze. Arredi essenziali e il look minimal tipicamente internazionale, specchi, legni caldi, arredi squadrati, la luce giusta ed una quantità di posate sul tavolo che fanno pensare ad un buon numero di portate. Una bella cornice dentro la quale iniziamo a sentirci a nostro agio e pronti al decollo di questo unico menu proposto dallo chef. Dalla curata composizione del primo delicato antipasto nel quale il sapore dell’anguria si mescola a quello del gaspacho ed il sorbetto di melone con quello dei sottili filamenti di prosciutto crudo disidratato capiamo che si tratta di un raffinatissimo ristorante, uno dei migliori della città. Da questo momento il nervosismo di Vanni cresce esponenzialmente al numero delle squisite delicate pietanze che sfilano sul nostro tavolo, in vista del costo che sarà esorbitante. Meritano di essere citati i piccoli colorati fiorellini commestibili che stanno per scivolare dal raviolo avvolto in un foglio di pasta sottile come carta, immerso in un brodino al profumo di wasabi, il quadratino di foie gras sul quale è adagiata una delicata composta di mango ed i pezzetti di frutta inseriti in una gelatina trasparente al profumo di rosa. Intanto, fra una portata e l’altra una ghesha scesa dal primo piano si infila in bagno e vi rimane a lungo…. impensabili tempi più brevi per chi indossa kimoni così complicati. Poi è un signore elegante quello che per passare inosservato si infila veloce oltre la porta. Quando chiedo curiosa se al piano superiore c’è una festa il cameriere risponde che ci sono solo due persone, quelle che poco dopo scendono veloci ed escono in ordinata sequenza: la guardia del corpo, la ghesha ed il signore abbastanza facoltoso da potersi permettere una serata particolare sulla scia di una tradizione ancora radicata anche se sempre meno praticata. Poi usciamo anche noi ma senza fretta, alleggeriti di ben 38.850 Yen, circa 380 € tutti peraltro meritati.

03/05 Agosto 2011

KYOTO

Dedichiamo gli ultimi giorni alla visita di ciò che rimane da esplorare ad eccezione degli antichi templi ai quali preferiamo per esempio il mercato. Collocato in una delle gallerie del centro storico lo avevamo immaginato vivace ed incasinato come tutti i mercati del mondo. Sbagliavamo perché il rigoroso ordine giapponese si è impossessato anche di questo. Non venditori ed acquirenti vivacemente intenti a proporre ed a scegliere prodotti variopinti ed invitanti accatastati in disordinate montagnole ma confezioni di frutti incellofanati così come molti altri prodotti culinari, solo il pesce è proposto dal vivo, ovviamente ordinato secondo qualità e dimensioni. Qualche ragazza indossa il kimono in vista di uno sconto del 10% offerto a chi acquista vestito in abiti tradizionali, un modo come un altro per stimolare il ritorno a quello che ormai è solo un simbolo del passato. Qualche tavola calda occupa piccole nicchie che diffondono invitanti profumi ed alcune bancarelle espongono parti di pesci che non pensavo qualcuno avesse il coraggio di mangiare… pinne, occhi, insomma bocconcini che solo forse sono apprezzati. Sumi è la gentile dolce amica di Vanni che avevo conosciuto in Italia durante una sua lunga esperienza extraterritoriale. E’ la compagna ideale per l’acquisto che desidero fare da quando sono arrivata, un bel kimono di seta, al quale rinuncio subito per il costo proibitivo… ripiego su un cotone disegnato con fiori nelle tonalità del grigio violetto. Sumi mi racconta che la seta non è molto usata se non dalle geishe i cui cachet sono così alti da poter loro concedere il lusso di meravigliosi tessuti dipinti a mano…. forse per compensare il sacrificio di tenere per ore sul viso il cerone bianco che con questo caldo deve essere una tortura …. il costo di 300.000 € per un kimono è considerevole per un comune mortale. Sono soddisfatta del mio kimono scelto su consiglio di Sumi dopo averne indossati un paio… e la fascia rossa in cintura fa un figurone. Ora dovrò imparare ad avvolgerla attorno alla vita ripiegandola in modo da ottenere il nodo a farfalla, per fortuna ho casualmente trovato nello scaffale di una libreria il dvd che svela tutti i segreti per indossarlo in meno di un’ora… scherzo, non è poi così difficile, basta prenderci la mano! Osserviamo la seta solo da lontano senza nemmeno osare raccogliere qualche informazione, ne servono tredici metri per fare un kimono, della larghezza standard di 40 cm…. Infine torniamo al passato con la visita alla pagoda a cinque piani racchiusa nell’antico tempio Ninna Ji, il secondo ed ultimo nostro appuntamento con gli edifici storici della città. Immerso in un verde giardino che sfuma nel bosco della collina retrostante, ne apprezziamo gli edifici restaurati in modo da mantenere il sapore della storia fin dal grande portale di ingresso ai cui lati sono imprigionate dentro steccati di legno le sculture di divinità dall’aria sinistra. Quello con la bocca chiusa rappresenta la morte, la bocca aperta invece la vita. Figure simili a queste sono presenti all’ingresso di tutti i templi ed i santuari shintoisti, qui però la vera chicca sono i tetti erbosi, realizzati fissando le piantine di erba fra travetti di legno ed anche i piccoli templi più defilati e semplici che raggiungo percorrendo un sentiero discreto e deserto che sale fra gli alberi sulla collina. Sono sola e loro sono così come li si trova prima di una rimessa in sesto. E’ fantastico essere soli in queste occasioni perché tutta la magia si diffonde ed entra mentre le ragnatele solleticano la mia pelle. Nessuno mi sta osservando mi tolgo anche la soddisfazione di suonare la campana appesa sotto il tetto di un piccolo tempio. Facendo ondeggiare la corda appesa lì di fianco… mi sento come una bambina che ha trasgredito alle regole! che meraviglia…

06 Agosto 2011

KYOTO – TOYOTA CITY

Kyoto alle nostre spalle, inseguiamo il taxi nero che ci guiderà lentamente, come da precise indicazioni di Vanni, in questo nostro esodo dalla città. Lo sfavillio della city sempre più lontano scorriamo nel traffico della periferia, fra edifici modesti pieni di insegne che come quadri sporgono dalle facciate dei piani terra. L’autostrada ci riserva stati di panico ad ogni raccordo ma arriviamo infine a Toyota, una città piccola ma importante soprattutto per Vanni che soddisfa così il suo romantico sogno di riportare Asia alla casa madre. Il tempo di appoggiare le valigie nella camera del modesto Sanco Inn Hotel ed è già in missione alla sede Toyota per un sopralluogo in vista della visita di domani al settore produzione della grande azienda. Con la lettera che ha scritto al Sig. Toyota nelle mani, spiega il motivo del suo arrivo in città ad un impiegato che come risposta gli ride in faccia. Vanni incassa con stile e non molla, troppo poco per farlo desistere dall’idea maturata un paio di anni fa, quando decidemmo di lanciarci alla conquista dell’ Asia. Scritta col cuore nel proposito di dare lustro all’azienda, ecco il titolo ed il testo.
“Un lungo viaggio per riportare alla casa madre la mia Toyota HJ60”.

Egregio Sig. Toyota
spero leggerà questa lettera che ho portato con me dall’Italia per ringraziare lei e le sue maestranze di aver progettato la Land Cruiser HJ60, a mio parere la più elegante, robusta ed affidabile vettura del mondo. Quest’auto mi ha permesso di realizzare il sogno della mia vita, quello di esplorare, a bordo delle mie tre HJ60 l’Asia, l’Africa e le Americhe, una sorta di giro del mondo quasi completamente compiuto. Ringrazio innanzitutto lei e le officine Toyota nel mondo che mi hanno assistito dandomi la forza e la sicurezza necessarie per continuare i miei lunghi viaggi. Vorrei segnalarne qualcuna in particolare
concessionario Giunchi di Forlì
officina Venturi Giorgio di Forlimpopoli
officina Celentano Motor di terra del fuoco, Argentina
Concessionario di White Horse, Canada
Concessionario di Ankorage, Alaska
Concessionario di Ulaan Baatar, Mongolia
Concessionario di Irkutsk, Siberia
e le molte altre che hanno nel cuore la famiglia Toyota
Dovendole tanto
la ringrazio
Giovanni Zamboni

07 Agosto 2011

TOYOTA CITY

Il momento tanto atteso si compie alle dieci di questa mattina con il nostro ingresso al Museo della grande casa automobilistica dove una serie di nuovi modelli brillano come pietre preziose nell’ampio salone che celebra la grandezza del marchio. Con la lettera in mano Vanni si avvicina al desk dove alcune ragazze mostrano sorrisi standard ed interesse chiedendogli come possono aiutarlo. In un attimo i sorrisi si trasformano in perplessità per l’insolita richiesta, senz’altro la prima di questo genere, ma Vanni sa convincere ed Asia è parcheggiata in bellavista poco oltre la vetrata di ingresso. Non avendo scelta le signorine raccolgono la missiva e dopo una lunga serie di inchini gli confermano che sarà recapitata….? Il dubbio che potrebbe finire nel cestino più vicino non sfiora Vanni che intanto stampa sulle sue copie i timbri del marchio che ha a disposizione, il suo desiderio è di spedirle ai concessionari che zelanti lo hanno aiutato, ma immagino che finiranno incorniciate ed appese alle pareti di casa. Solo più tardi, quando un’altra sorridente signorina ci mostra la catena di montaggio del settore assemblaggio diventa chiaro che l’aspetto umano è molto lontano dalla filosofia della casa automobilistica e ad anni luce dalla dolce e sincera commozione di Vanni…. ed appare chiaro anche che l’unica sincera risposta alla lettera è stata la risata che gli è stata sbattuta in faccia ieri pomeriggio. Il ritmo al quale sono costretti quegli operai è folle e disumano, lavorare con il cronometro al polso per far si che il numero delle auto che scorrono sia sempre così sostenuto da far avvicinare al 100% la produzione, numerino che compare ossessivamente sui display disseminati ovunque all’interno di questa grande gabbia, è aberrante, ed è fondamentale che il lavoro di ognuno sia eseguito alla perfezione prima che la riga rossa marcata sulla piattaforma in movimento e quella segnata sul pavimento a pochi metri di distanza siano allineati in un tempo brevissimo. Distolgo lo sguardo ed il mio sorriso si spegne mentre penso a come si possa non impazzire lavorando così per ore, giorni ed anni, come le macchine che li precedono ma con un cuore che palpita, un cervello che pensa ed una vita da vivere decorosamente. Quando sentii parlare del fatto che non è raro che i lavoratori giapponesi che commettono un errore sul lavoro poi si suicidino non capii come questo fosse possibile, ora capisco che questa è forse l’unica alternativa all’ossessivo numerino. Il paradosso è che la produzione Toyota è in esubero! Riproporre a distanza di decenni quello che Charlie Chaplin denunciò con ironia nel film “Tempi Moderni” fa capire che qui nulla è cambiato da allora…. che tristezza. Recupero alla grande quando scesa dal taxi mi trovo a percorrere il bellissimo ponte bianco di ispirazione organica realizzato fuori città, due campate sorrette in alto da strutture paraboliche, come i manici della valigia di un alieno! Oltre i cavi della tenso struttura si delinea lo stadio di Kisho Kurokawa i cui possenti elementi strutturali coincidono con l’edificio stesso, flesso in alto da un lieve movimento che tenta di alleggerirne la rigida staticità, rendendolo somigliante ad un liquido denso mosso dentro il vaso che lo contiene. Usciamo soddisfatti dal piacere del contatto con i due gioielli di Toyota City che hanno fatto passare in secondo piano la cittadina che li ha generati e con essa la grande azienda automobilistica.

08 Agosto 2011

TOYOTA CITY – NAGOYA

Nonostante si tratti di percorrere a ritroso un tratto della Highway che conosciamo riusciamo a sbagliare l’uscita diretta per Nagoya City trovandoci così in balia di un groviglio di expressway dal quale ci salvano un paio di gentili impiegati che ad un casello pur parlando solo giapponese ci fanno capire come poter conquistare il centro città . Infine il taxi che seguiamo fino al nostro B.Nagoya Hotel, comodo, piacevole e con prodotti Shiseido in bagno. Spompati dal calore ci abbandoniamo sul lettone per trovare almeno la forza di raggiungere il Sushi Restaurant all’ottavo piano del vicino centro commerciale, di fronte all’edificio ad angolo che esplode in alto con una insegna cilindrica così luminosa da diffondere il suo chiarore in buona parte del quartiere. Oltre il parco urbano inserito fra due arterie di traffico, emerge dagli alberi la torre della televisione che illuminata si staglia sul buio della notte come una piccola Torre Eiffel.

09 Agosto 2011

NAGOYA

Toyota City – Nagoya

Ci muoviamo lungo le strade patinate che delimitano i prestigiosi quartieri del centro, negozi di grandi marche, strade pulitissime nonostante l’assenza di cestini e divieti di fumare stampati su ogni marciapiede. Oltre gli alti edifici che segnano le arterie principali, le strade strette, gli edifici bassi e modesti ed i negozi dedicati ai prodotti meno fashion ma legati alla necessaria gestione del quotidiano, hanno il sapore della città verace di un tempo passato, nascosto dietro a quinte levigate dal benessere e dalla tecnologia. Tombini decorati con disegni in rilievo che riproducono pagode, fiori ed uccelli segnano il percorso verso gli alti edifici di Midland Square, i fari della city, alti e bellissimi. Sono così felice di trovarmi qui, per la prima volta a gironzolare sotto un grattacielo che si alza dal suolo in una magnifica torsione a spirale, le cui scanalature sono evidenziate da rientranze ombreggiate, esplosivo anche per i semplici geometrismi degli altri altrettanto alti che lo circondano. L’effetto si esalta osservandolo dalla terrazza del Toyota tower che rigido nella sua rigorosa forma a parallelepipedo si distingue per la sua copertura scavata come una grande elle rovesciata, il più alto che emerge sopra la città ed ai vicini edifici cilindrici della stazione che lo fronteggiano quasi a sostenerlo. Molto più in basso, a pochi centimetri dal suolo, sculture ancora rigorosamente geometriche ci riportano a proporzioni più accessibili, e l’aria fredda che esce dalle grandi porte dei centri commerciali ci danno un breve brivido di piacere nella torrida giornata di oggi invitando piuttosto a rinunciare alla passeggiata che dovremmo fare per raggiungere il museo del design contenuto in un bell’edificio hi-teck, il taxi aria condizionato è in questo caso una irrinunciabile ancora di salvezza. Non resta che fare un sopralluogo alla stazione degli autobus che troviamo a due passi dall’hotel dopo aver trascinato i nostri piedi verso il traguardo della nostra visita in città. Bello! quasi invoglia a salire su un bus. Saliamo invece sulla copertura metallica e leggera a fare due passi attorno alla sottile vasca d’acqua che occupa la parte centrale della struttura ovale. Inclinata su un lato esalta il disegno del complesso, come la valva di una immensa conchiglia dalla forma perfetta. La grande apertura ovale al livello del terreno dà luce al piano interrato, dove i pullman sono resi invisibili, come i treni della stazione di Kyoto, sprofondati qui sotto il giardino verde che lo circonda…. è quasi sera e le luci colorate fanno sembrare questo oggetto leggero e dalle curve morbide un’astronave appena atterrata, manca solo un pò di fumo…. Non ci aspettavamo così tanto da Nagoya.

10 Agosto 2011

NAGOYA – TOKYO

Le magliette inzuppate di sudore ci rassegniamo a percorrere quest’ultimo tratto di strada verso la capitale senza aria condizionata, un classico delle nostre Land Cruiser, troppo vissute per essere perfette. Arriviamo senza problemi nel centro di Tokyo seguendo la Tomei Expressway che la perfora fino a raggiungerne il cuore, siamo nel quartiere Shimbashi, ed il nostro Park Hotel è il più alto della città. Da giorni ironizzo con Vanni che lo ha opzionato fra i tanti proposti da Booking.com, per la posizione strategica ed il costo molto vantaggioso. Seguiva l’andamento dei prezzi come se fossero quotazioni di borsa, 130 € al giorno qui a Tokyo sono davvero pochi rispetto alla media, e le immagini erano la promessa di un soggiorno confortevole. Da qui era nato il giochino, vedrai che la nostra camera economica sarà all’ultimo dei 34 piani dell’hotel, quello più esposto alle flessioni provocate da un terremoto, e le più lontane in caso di evacuazione… strano che non siano completamente gratuite! Quando al desk ci è stata consegnata la chiave della 3427 appena sotto il tetto, siamo morti dal ridere….altro che penalizzati, il meraviglioso spettacolo che si offre ora ai nostri occhi incorniciato dalla parete vetrata in fondo alla camera si è imposto subito dopo il nostro ingresso sopra ogni considerazione facendoci sentire le persone più fortunate del mondo. Ora non resta che festeggiare il raggiungimento dell’obiettivo finale di questo nostro viaggio nel migliore dei modi possibili, con un bicchiere di champagne assaporato di fronte alla città in movimento sotto di noi, una delle più belle della nostra collezione. E’ tardi quando decidiamo di abbandonare momentaneamente la camera con vista per soddisfare il nostro appetito, un amico giapponese ci aspetta nel ristorante dove lavora, il superbo Jungumae ( 1 Park court Jungumae 1F /1 – 4 – 20, Jungumae Shibuya – Ku. tel. +81 804 170 0529 ), le cui vetrate si affacciano sul giardino già avvolto nell’oscurità. Takiro è bello quanto il locale nel quale ci accoglie, sofisticato ed avvolgente, ed il menu nouvelle cuisine è sinonimo di cucina francese. Dopo l’esperienza di Kyoto sappiamo di non aver sbagliato la nostra scelta, ottimi sapori ben confezionati, vino eccellente, impeccabile ma disinvolto il servizio con sorpresa finale che Takiro ci riserva in via del tutto eccezionale. La cena è quasi terminata quando ci accomodiamo nella saletta vetrata ritagliata all’interno della cucina, solo due coperti e la possibilità di sbirciare la preparazione dei nostri dessert accompagnati da un bicchierino di Sauternes, l’unico vero gustoso made in france della serata. A questo punto il problema da risolvere è dove parcheggiare Asia e Takiro potrebbe aiutarci a risolverlo.

11 Agosto 2011

TOKYO

Colazione di fronte al megaschermo e si parte, Vanni a caccia del referente per il parcheggio ed io all’inseguimento del TAM di Tadao Ando, il museo di arte moderna più recente della città. Non avrei mai immaginato che per un gioiello di Tadao avessero potuto scegliere una collocazione a 70 € di taxi dal centro, e così rassegnata sfodero la mia Visa e scendo di fronte ad una piccola porta vetrata chiusa. Visto dall’esterno l’edificio sembra appartenergli, ma è troppo piccolo per poter ospitare un museo e così giro attorno all’isolato per cercare l’ingresso principale ahimè inesistente. Riassumendo, la porticina è quella giusta ma il museo è aperto solo nel weekend, tanta strada per nulla, e niente da vedere di interessante nei paraggi, solo un quartiere residenziale modesto nel quale il museo è stato collocato in vista forse di di una riqualificazione, nemmeno un taxi all’orizzonte. Essendo i mezzi pubblici molto usati dagli abitanti di Tokyo cerco e trovo una stazione ferroviaria, ma di fronte alla fila di biglietterie automatiche mi blocco non sapendo cosa fare mentre i locali infilano monete senza esitazioni. La disponibilità e la cortesia giapponese però mi aiutano abbastanza da trovarmi seduta sul treno con un biglietto in mano, una mappa della metropolitana con diciture anche in caratteri occidentali sulla quale un gentile signore ha evidenziato il percorso da fare, ed un obiettivo da raggiungere. Prima di tutto la stazione di Sinjuku, e per non buttare via l’intera giornata esagero lanciandomi nell’impresa di continuare il mio tour ora sotterraneo per raggiungere la stazione di iidabashi, sezione Toei Oedo, il cui allestimento progettato da Makoto Sei Watanabe rende la stazione particolarmente piacevole. Sorprendenti le torri di ventilazione che salgono racchiuse da tre grandi foglie di metallo e vetro sostenute da profili di ferro a forma di steli. ramificati verso l’alto dal marciapiede. I tubi di ventilazione al loro interno sono quasi completamente invisibili ed il risultato estetico sospeso fra realtà e fantascienza, sicuramente di piacevole impatto. Con scioltezza ora mi muovo sicura nei tunnel della città fino a raggiungere la stazione di Shiodome, a due passi dall’hotel che trovo casualmente fra i grattacieli che svettano altissimi e belli sopra di me, uno in particolare mi colpisce per i reticoli a cilindro che salgono rastremandosi sui quattro angoli, è la sede della Nippon Television Tawer di Kenzo Tange…. un bel bottino quello di oggi!

12 Agosto 2011

TOKYO

Il quartiere Ginza mi incuriosisce ed è relativamente vicino all’hotel, lo raggiungo con una passeggiata lungo gli ampi percorsi pedonali della metropolitana, un mondo sommerso molto ben allestito dove centinaia di persone si muovono al riparo dal traffico cittadino. Seguo le indicazioni per Ginza che non so bene quando mi consentiranno di riemergere alla luce del sole, ma quale scegliere …. Ginza 1, 2, 3, 4 ? Casualmente scelgo bene, e dopo un quarto d’ora sono sul percorso pedonale in quota, uno di quelli al primo livello che passano sopra la strada a livello zero e sotto la ferrovia al livello due sulla quale si muovono i treni della metropolitana esterna. Un groviglio di flussi che soddisfano l’intenso traffico generato dai venti milioni di abitanti, organizzati su vari livelli che si intersecano idealmente e che cambiano le rispettive direzioni con ampie parabole che rendono ancora più complesso l’effetto visivo. Qui nella downtown i flussi di auto, treni e pedoni si sviluppano in verticale proporzionalmente all’altezza degli edifici che sfiorano. Camminando su una di queste comode corsie pedonali a diversi metri di altezza, seguendo una direzione piuttosto che un vero obiettivo, confuso nella selva di giganti, distinguo uno degli edifici che avevo in programma di vedere, il “Nagak in Capsule” che non immaginavo avrei trovato oggi, tanto meno qui di fronte a me proprio all’inizio della missione, tra le tante possibilità offertemi appena fuori dall’hotel. Si tratta di un particolare edificio residenziale che si sviluppa in altezza con una serie di parallelepipedi, le cellule abitative, aggregatesi in modo apparentemente casuale attorno all’asse verticale e sporgenti verso l’esterno in modo da formare un marcato chiaroscuro. Le finestre circolari, una per ogni cellula, rafforzano il geometrismo del progetto che termina in alto con un paio di cappelli di acciaio ossidato… cemento e ruggine, fantastico!… e di buon auspicio per la giornata appena iniziata. Avevo letto qualcosa di Ginza, dei suoi alti edifici e degli eleganti negozi che riassumono l’alta moda nel mondo, ma per il momento non trovo che un teatro, decisamente lontano dagli standard del quartiere che pensavo di aver raggiunto. Ma sono fortunata oggi ed il basso edificio in mattoni, squadrato ed invitante è uno dei pochi in città a proporre il Kabuki, uno dei generi teatrali appartenenti all’antica tradizione giapponese, il suo nome è Shimbashi Enbujo Theatre, uno dei pochi sopravvissuti alla demolizione. Entrare subito mi sembra una buona idea visto il cielo grigio scuro, ma lo spettacolo del pomeriggio è appena iniziato e quello delle sei del pomeriggio troppo lontano. Non mi resta che seguire le indicazioni del custode avvicinandomi alle strade trasparenti di vetrine, due assi stradali, contenitori di infinite tentazioni allo shopping tra i più costosi della mia modesta esperienza in campo. Impossibile acquistare qualcosa, ma il mio vero interesse è per gli edifici alti ed allineati, articolati in alto dal saliscendi delle diverse altezze, come canne d’organo del tempio del consumismo. Bizzarri per la necessità di ogni edificio di superare l’ originalità di quelli vicini, colori, texture, volumetrie e grandi pannelli luminosi in alto, larghi quanto l’edificio. Lucido, opaco, liscio o perforato da disegni in rilievo, vi si leggono le tendenze della storia dell’architettura contemporanea, dagli anni sessanta in poi. Buona parte dello scibile degli effetti speciali sembra riassunto in questo crocevia dove i miei occhi cedono inevitabilmente di fronte ad un meraviglioso paio di stivali. Ne esco senza pacchetti ma con il piacevole ricordo di stile e vivacità del campionario dei possibili edifici, belli soprattutto nell’espressione della loro coralità. Lo spettacolo del Kabuki è solo rimandato.

13 Agosto 2011

TOKYO

Louise è già in hotel, seduta su un divano di pelle della reception, grandi occhi azzurri ed il sorriso sulle labbra. Rivederla è un piacere quanto la prospettiva di rimanere qualche giorno con lei, a zonzo per la città. L’esordio non è così eccitante come lo avevo immaginato ma trovare una collocazione per Asia ha la priorità assoluta su tutto ed il parcheggio New Usa che Vanni ha scovato a due passi dall’aeroporto in collaborazione con l’ amico di un amico, sembra perfetto. La catena umana ha portato all’insperato risultato di un parcheggio sicuro ad un costo relativamente modesto …. certo è che il parcheggio scoperto non piace molto a Vanni ma Asia è robusta e la possibilità di scollegare le batterie e di tenere le chiavi in saccoccia compensa il piccolo difetto e ci consente di tirare un sospiro di sollievo, lo sdoganamento di Asia ha creato in noi un trauma indelebile! Poi un giro in metropolitana, nella quale anch’io ora mi muovo senza esitazioni grazie alla tessera Pasmo che Louise mi ha convinta ad acquistare. Eviterò così il noioso inserimento delle monete nelle macchinette ad ogni cambio treno e sarò molto nippo!

14 Agoso 2011

TOKYO

Il quartiere che Louise colloca al primo posto della sua top ten è quello di Yanaka, sfuggito per il momento all’intensiva edificazione del centro. Case basse, strette strade pedonali e decine di negozi che propongono oggetti artigianali, come la carta fatta a mano adatta per l’origami, per rivestire scatole di cartone o piegata in buste e biglietti. A questo si aggiungono i posa bacchette di ceramica, dai più essenziali a quelli ornamentali, le tazze per il tè, i calzini adatti ad indossare ciabatte infradito e molto altro. Il tutto calato in un contesto silenzioso e rilassante nel quale non si devono salire scale per attraversare la strada, ma solo abbandonarsi al flusso dei pedoni e raggiungere il parco urbano dove i cristiani si raggruppano per celebrare il rito religioso, all’ombra degli alberi, in ginocchio sull’erba, gratificati anche dallo spuntino gentilmente offerto dalla comunità. La passeggiata si spinge anche negli angoli che nessuno avrebbe la curiosità di visitare, i retro per esempio di piccole case che si affacciano su una piazzetta deserta, dove l’altalena immobile, la coperta gettata sul davanzale di una finestra ed una palla abbandonata rappresentano gli elementi romantici che sfuggono al rigoroso ordine della città visibile. Alcune piccole case di legno conservano gli assiti originali ed uno stretto volume color ruggine è squisitamente abbinato ad un basso squadrato edificio di legno nero…. un quartiere pieno di sorprese, come la caffetteria nella quale entriamo per uno spuntino, un gioiello del quartiere proprio come Louise che ha avuto l’idea di portarmici. L’aroma intenso del caffè ci investe fin dall’apertura della porta, oltre la quale trovano posto due tavolini e quattro sedie di fronte ad una mensola di legno. Il banco del bar è dimensionato in scala ridotta come il locale così piccolo da risultare per forza esclusivo. Sulle mensole dietro al gentile barista appassionato anche di musica reggae, file di vasi trasparenti raccolgono chicchi di caffè provenienti da ogni angolo del pianeta così come è scritto sui foglietti che sventolano ingialliti sulle nostre teste. Il profumo di curry che esala dal nostro piatto unico è il solo che possa essere percepito mentre davanti ai nostri occhi viene celebrato il rito della tostatura! Poco lontano c’è un grande cimitero scintoista nel quale alte e strette strisce di legno sono il supporto di preghiere scritte in ideogrammi, dritte accanto alla stupa funebre che segna la pertinenza della sepoltura. Una selva di legno senza foglie e senza vita, come i defunti dei quali non è esposta nemmeno una foto… la trovo una bella idea… Infine un particolare museo nel quartiere Kiyosumi che abbiamo raggiunto in metro, è il Fukagawa Edo che racconta la vita nel periodo Edo attraverso la fedele ricostruzione in dimensioni reali e nel rispetto delle tecniche costruttive tradizionali, degli edifici di legno del tipico villaggio abitato dai Samurai dove anche gli interni sono molto verosimili, riprodotti in ogni dettaglio comprese le ciabatte accanto alla porta d’ingresso, i tatami dove dormire, le poche stoviglie in cucina ed i gatti che miagolano sul tetto…. mancano solo i Samurai, ma il dettaglio è insignificante. La giornata si conclude in compagnia di Vanni, quando insieme raggiungiamo il teatro Shimbashi Embujo adocchiato ieri nel vicino quartiere Ginza… ma nonostante gli auricolari in inglese e l’interesse che la messa in scena di un pezzo della tradizione più antica normalmente suscita, la noia dello spettacolo è per noi così letale da farci fuggire dopo appena una mezz’ora, quando dopo aver visto lo splendido sipario dipinto ed i tradizionali kimoni di seta non ci sembrava il caso di dormire come alcune signore vicine a noi.

15 Agosto 2011

TOKYO

Giornata fantastica che si apre sul quartiere Shibuya, abbastanza fashion da contenere due edifici griffatissimi non solo per le aziende che ospitano ma anche per gli architetti cult che li hanno progettati. Il Prada di Herzog & De Meuron ed il Tods Omotesando Building di Toyo Ito, il mio attuale idolo. Protetto come un forziere dai mastini in tait ai lati dell’ingresso, superiamo la barriera ed entriamo al Tods dove ci viene imposto di non scattare foto. Inutile eludere la sorveglianza, un paio di attente signorine sono appostate sui due piani dell’atelier, che peccato! Gli interni sono modellati con esasperati geometrismi che trasformano mensole, tavoli, vetrate e scale in composizioni di superfici triangolari ad angoli più o meno acuti. Il progetto è ovunque, anche nella texture spalmata sull’esterno, nel parallelepipedo perfettamente squadrato dove triangoli creano le virtuali ramificazioni di una vegetazione piatta e pietrificata che si evidenzia nell’alternanza di settori di vetro opaco ed altri di cemento grigio… insomma un piccolo capolavoro. Rinuncio invece all’ingresso nel Prada building, il cui involucro è stato concepito da Herzog & De Meuron come una trama a losanghe nella quale la struttura nera del reticolo contiene spessi vetri talvolta gonfi come grandi bolle che sporgono dalla superficie esterna continua, flessa in alto a creare il piano triangolare di copertura. Il rigonfiamento di alcuni blocchi di vetro al piano terra crea la deformazione visiva dell’interno appena percepibile nel quale intravediamo scarpe ed accessori che immagino ordinatamente disposti sugli arredi assolutamente bianchi. Siamo nel quartiere Omote Sando e qui nei pressi c’è un negozio che Louise vuole assolutamente mostrarmi, è il Sou Sou che trovandosi al primo piano di un anonimo edificio risulta totalmente invisibile dalla strada. Vi si trovano abiti tradizionali abbastanza rivisitati da essere portabili anche all’estero, calzature e naturalmente i tipici calzini. In crisi di astinenza acquisto una bella maglia di cotone viola con scollatura a kimono e maniche di tessuto a pois, il costo è alto ma che importa … tutto qui lo è. Stimolate da un certo appetito troviamo casualmente il “Bohème”, una chicca molto d’atmosfera e poco parigina nonostante il nome nel quale troviamo un pavimento zebrato, il trasparente bancone di fondo illuminato con luci rosa, tavolini di legno scuro, ottimi spaghetti ed un buffet generoso… ma siamo solo all’inizio di questa lunga giornata che in vista della partenza sempre più prossima vorrei piena di sorprese… ed eccone una appena riemersi dalla stazione metro del quartiere Shinjuku, il Cocoon building che emerge su tutto con la sua slanciata silhouette chiara che va assottigliandosi verso l’alto come una grande borsetta, la struttura reticolare visibile sulla superficie esterna crea la texture più usata qui in città. Il cielo è ora bianco di foschia ma il sole è dentro di noi e la passeggiata continua all’insegna del puro piacere, con una sosta nel piccolo giardino dell’Okamoto Taro Memorial Museum nel quale troviamo sollievo alla canicola all’ombra di due alberi di banano e della foresta di sculture dell’artista, divertenti, ciccione e colorate. Un grande sole, la testa di un elefante ed un cane liberamente interpretati dalla fantasia di Taro. Una grande mano semiaperta, rossa e lucida sulla quale sedersi spicca in una delle poche stanze del ricco e accogliente museo nel quale camminiamo scalze sull’assito di legno chiaro tra disegni, dipinti ed ancora sculture immaginate. E’ un piacere trovare in questa città densa di edifici distanti pochi centimetri gli uni dagli altri un luogo selvaggio e diverso, come il Design Festa Gallery che raggiungiamo in metro nel quartiere Harajuku Meiji – Jungu Mae. Piacevole per l’atmosfera rilassata e giovane, le sue strade sono segnate da edifici bassi dove i giovanissimi passeggiano tranquilli nei loro particolari look di tendenza, affascinanti come le loro acconciature di ciuffi lisci sparati con cura sul viso dai bellissimi lineamenti orientali. Volendo distinguersi dalle generazioni passate lo hanno fatto con stile e trasandata eleganza e qui dove la ricerca estetica è al massimo e dove quasi tutto è bello loro hanno il vantaggio di non essere ancora inquadrati nel sistema impietoso e rigido. Simbolo della trasgressione è dedicare la vita all’espressione della propria immaginazione, ovvero essere un artista, se non ci si afferma abbastanza da poterne vivere si è fuori. Non solo disegni e quadri qui al Design Festa Gallery nel quale Louise ha lavorato e che ora mi mostra fiera, anche un piccolo spazio aperto, una pedana di legno, tre alberi e qualche tavolo sul quale appoggiare un drink, il tutto circondato da basse pareti di mattoni coperte di murales colorati. In questo angolo che dà sollievo e relax l’atmosfera è quella che spesso si respira quando si vuole diventare grandi in modo diverso, senza arroganza e senza voler essere per forza di tendenza, una scelta coraggiosa quella di chi pensa di poter vivere della propria arte…. qui dove si inizia a lavorare in una azienda e lì si muore, di vecchiaia o perché si è deciso di togliersi la vita, un fenomeno diffuso qui a Tokyo dove le metropolitane servono anche a questo. Nelle stazioni più gettonate i binari sono protetti da barriere fisse, altrove vi sono guardie armate che controllano i passeggeri in attesa, a questo si somma una legge che per scoraggiare ulteriormente il gesto addebita alla famiglia il costo della pulizia dei binari dai brandelli di carne dei loro disperati familiari. Lontanissimi da tutto ciò sono i giovanissimi, quelli che vivono la loro adolescenza con scelte estreme anche nel colore dei capelli. I più esibizionisti si raccolgono lungo la Takeshita Doori, a due passi dal centro sportivo di Yoyogi progettato da Kenzo Tange. Pesante e grigio non ha nulla a che vedere con la piacevole giornata di oggi… ma era doveroso per me vederlo! A concludere la giornata una squisita sofisticata cena al ristorante francese dell’hotel in compagnia dei nostri simpatici ragazzi, Louise e Takiro la cui presenza chiude in bellezza questo fantastico ferragosto.

16 Agosto 2011

TOKYO

Le urla ed i piagnistei dei bambini fanno dell’acquario di Tokyo un luogo da evitare, noi invece siamo qui, ingolosite dall’immagine vista su un sito internet e dal fatto che questa opera progettata da Yoshio Taniguchi compaia con l’invitante appellativo di Acquario Crystal View nell’elenco degli edifici d’autore del sito www.turismo-giappone.it nella sezione arte e cultura…. La cupola di vetro però è piuttosto banale ed il resto troppo affollato per poter osservare anche solo un pesce senza dover farsi largo a gomitate qui dove all’ordine nipponico si è sostituto un casino esagerato che non esclude gli spintoni. Chiudiamo in bellezza con un sopralluogo al Tokyo Opera City Art Gallery nella zona Hatsudai dove un gruppo di giovani architetti ed urbanisti propongono la città della quinta generazione, la loro, in controtendenza rispetto allo sfruttamento intensivo del suolo avvenuto negli ultimi cinquanta anni. Interessanti i plastici di compensato in scala gigante del quartiere ideale costituito da abitazioni sostenibili anche a livello umano, con grandi finestre, giardini e tetti terrazzo. Interessante e necessario….. domani sarà il nostro ultimo giorno… Sob!

17 Agosto 2011

TOKYO

L’ultimo giorno è arrivato ma le energie non sono ancora esaurite così come le cose da vedere, troppe per una sola settimana, solo la prospettiva del nostro ritorno il prossimo giugno mi consente di rinunciare con serenità ai due musei previsti per oggi, interessanti forse solo per gli edifici che li contengono. L’obiettivo in realtà è l’acquisto di alcuni regali mirati nei negozi riassunti sulla paginetta stampata da Louise. Un solo quartiere nel quale cercare, basta avere le idee chiare e la pazienza di trovare i pallini rossi percorrendo strade vere. Siamo nella zona della città dedicata al sesso ed al gioco d’azzardo ora, dei quali però a quest’ora non vi è traccia, il quartiere controllato dalla mafia giapponese. Sotto il sole cocente di oggi sono pochi a muoversi ed alcuni sono già seduti per uno spuntino ai tavolini ombreggiati da teloni lungo la strada pedonale che si allontana dall’antico tempio e dalla pagoda a cinque piani. I profumi ingolosiscono con promesse di piatti accettabili ed i colori delle granite fanno molto intossicazione alimentare, ma la compagnia della giovane Louise mi fa regredire e la granita al sapore cola è buona come trenta anni fa. Per strada le famigliole con bambini vanno al tempio o passeggiano lungo le gallerie commerciali, come noi che abbiamo appena concluso la missione timbro per Vanni che lo aveva cercato inutilmente per giorni. Ora invece, sollevate dall’esito positivo, stiamo cercando qualcosa di David Bowie per Bob che lo adora. La ricerca ci porta ad entrare in un verace negozio di dischi con le pareti rivestite da etichette i cui ideogrammi indicano senz’altro i nomi di cantanti orientali. Ci accorgiamo presto di essere entrate in un museo della musica i cui reperti più antichi sono le musicassette ed i vinile impreziositi dalle fascette di importazione, incomprensibili e di grande effetto. Di David Bowie non vi è traccia ma con i quattordici vinile acquistati il vecchio store è rimasto senza esemplari di musica rock occidentale…. un bottino che rende felici entrambe per il tesoro trovato spulciando i sette metri lineari di scaffali anche al di sotto delle nostre ginocchia…. Già immagino Bob quando si troverà di fronte al viso del mitico Boy George affiancato da meravigliosi ideogrammi. Lo stress arriva dopo, quando Louise non conoscendo l’entità dei miei ripensamenti mi invita a prendere in considerazione i kimoni da uomo nei negozi di questa strada tutta dedicata, mi basta vederne un paio per capire che non ne regalerò uno a Vanni…. ma cosa scegliere per festeggiare domani il suo compleanno? Il vecchio pugnale in stile samurai in esposizione nella vetrina di un rigattiere, o un backgammon con il quale adora giocare?…. magari con qualche riferimento al Giappone, ma dove? Dopo centinaia di metri di vetrine inutilmente prese in considerazione raggiungiamo un Departement store, un grande magazzino nel quale però i pochi backgammon non possono nemmeno essere presi in considerazione …. la grande tradizione del Mahjong ha sbaragliato ogni concorrenza. Siamo a Ginza ora ed il tempo stringe… la decisione di vuotare il bagagliaio di Asia in vista della sua sosta qui ci ha costretti a valigie impreviste che ora vogliamo portare in un deposito bagagli dell’aeroporto, e Vanni mi sta già aspettando …. è sempre stato un precisino insopportabile nello svolgere le operazioni relative ai trasporti di persone e cose…. e Louise finita nel vortice della ricerca spasmodica dell’ultimo momento non sa più come fare ad uscire dal limbo nel quale l’ho trascinata… poi il miraggio appare dentro la vetrina di un magazzino dove decine di gemelli sono pronti per essere infilati nei polsini delle camicie di Vanni, è fatta! Siamo tutti felici ora, Vanni per il nostro arrivo e noi per aver dato un senso al frenetico pomeriggio. Un drink di arrivederci in compagnia di Louise e si va… anche se il check-in di rientro sarà solo domani mattina alle 10. Il nostro primo viaggio in Giappone finisce con il nostro ingresso nel modesto hotel dell’aeroporto ….


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24 Timor Ovest


20 settembre 2015

DILI – KEFAMENANU

Il Prof. ci accompagna nel breve tratto di strada che arriva alla frontiera. Stranamente in buono stato per lunghi tratti la consideriamo l’omaggio di Timor Est prima del nostro congedo, una rilassante passeggiata lungo la costa frastagliata con magnifici scorci sul mare e sulla spiaggia profonda per la bassa marea, i raccoglitori di mitili chini verso la sabbia e vecchi gozzi appoggiati su un fianco. Dopo Atabi la strada si spinge nell’entroterra montuoso fino a Batugade, la città di frontiera timorense che dista da Dili 120 km, per noi tre ore di auto. Entriamo nell’area di frontiera indonesiana attraverso il grande portale variopinto oltre il quale, sotto la pensilina sono disposti in fila i gate di controllo dei documenti. Tutto nella norma ad eccezione del militare in piedi accanto ad uno dei box con il fucile puntato ad altezza d’uomo nella nostra direzione, sta giocando a fare la guerra? ci chiediamo guardandolo perplessi e pur abbozzando fatichiamo a leggere il gesto come un segnale di benvenuto. Sbrigate poi le tediose formalità per ‘ingresso di Asia esibendo il Carnet de Passage che sfortunatamente non tutti i doganieri conoscono, ed impressi i timbri sulle paginette dei nostri due passaporti oltrepassiamo il gate entrando finalmente in Indonesia. Molti ci sorridono. Sono sorrisi belli, leggeri, quelli che fanno sentire fortunato chi li riceve. Non hanno vissuto l’offesa dell’aver subito una guerra loro che invece l’hanno fatta, quindi arricciano le labbra verso l’alto contagiando di buonumore. In questo mondo a parte, molto diverso da quello dal quale siamo arrivati, godiamo della piacevole sensazione di benessere che si complica di palme, casette di legno a palafitta e delle mangrovie che nascondono il mare. Nei brevi scorci intravvediamo le canoe di legno dei pescatori ed assistiamo alle sfilate di famiglie di maialini. Poi ci inoltriamo nel cuore del territorio che ora sembra persino più tropicale di prima, dove i pendii lievi hanno sostituito la durezza delle montagne più ad Est. Vediamo gli anziani indossare parei tessuti a mano, le signore portare secchi d’ acqua sulla testa ed i bambini spingere i carretti di legno carichi di taniche piene… deve essere l’orario dell’approvvigionamento dai pozzi ed i centri abitati si accendono di vita ed i fumi si alzano dai grill oltre i marciapiedi. Le risaie già in ombra sono ancora verdi ed alcuni lavorano ancora raccogliendo al fresco del tramonto. Arriviamo a Kefamenanu al tramonto, appena in tempo per trovare la disponibilità di almeno una delle tre camere superior al Live Ro Hotel. Non avrei mai immaginato che la business potesse avere il bagno così incrostato di sporco e non funzionante, il wc senz’acqua in cassetta e le chiazze rosse sul lenzuolo. L’igiene sembra non essere necessaria qui dove pochi comprendono e parlano inglese e dove gli orari di apertura e chiusura del ristorante coincidono. Fuori invece ci sono la vita e la povertà oltre ai dolcetti squisiti dell’emporio sull’altro lato della strada.

21 settembre 2015

KEFAMENANU – OELOLOK – OINTASI

La giornata inizia con un discreto elenco di luoghi da visitare tra cui la visita a Oelolok a soli 32 km di distanza da Kefamenan che raggiungiamo con una breve deviazione dalla strada principale che porta a Kupang. Il nostro interesse per Oelolok non è solamente legato agli edifici tradizionali rimasti immutati grazie alla recente politica di conservazione delle sue radici storiche. Oelolok è anche un villaggio di tessitori e le belle sciarpe e parei Tais sono una tentazione irresistibile. E’ da poco passato il mezzogiorno quando in auto percorriamo la breve strada ad anello che distribuisce il piccolo centro abitato, e’ molto caldo ed il villaggio è silenzioso e deserto. Non resta che proseguire a piedi per vedere se qualcuno si mostra ed infatti poco dopo all’ombra di una delle tettoie di paglia incontriamo la filiforme signora anziana ricurva sul suo telaio a terra. Sembra averlo usato durante tutta la sua vita. Seduta sul pavimento di pietre levigate trattiene con i piedi il bastone di legno sul quale sono annodati i fili tesi dell’ordito. Vi si muove sicura lanciando la spola attraverso i fili dai colori sgargianti che divide in gruppi con una sottile bacchetta di bambù. Sta seguendo lo schema disegnato su un foglio ingiallito ed ormai logoro dove sono tracciati i disegni tradizionali che si evidenzieranno come fossero ricamati. Fa finta di essere sorda per non rispondere alle domande che suggerisco a gesti ad un paio di ragazzi del luogo che traducono. Spiego che vorrei acquistare una sciarpa Tais creata dalle sue mani ma lei non dà segni di vita. Di bambù sono anche le case, squadrate e con le pareti perfettamente lisce per la particolare lavorazione delle pertiche tagliate in listelli di pochi centimetri ed accostate. Accanto ad ogni abitazione sono state costruite ampie tettoie circolari sostenute da quattro grossi pilastri di legno ed il cui manto di copertura, fissato sulla struttura di legno, è costituito da grandi ciuffi di paglia rasata. Le tettoie definiscono le superfici d’ombra dove tessere, appendere le pannocchie, giocare o semplicemente oziare seduti sulle possenti panche di tronchi lucidi per l’uso. Anche qui come altrove siamo accolti con malcelata diffidenza, come il signore che seduto all’ombra ripone nel fodero il suo machete per poi eclissarsi oltre la porta di una delle case. I turisti devono averli nel tempo sfiniti. Intanto come api sul miele sono arrivati i bambini che attratti dalla macchina fotografica iniziano il consueto corteggiamento del vorrei ma non oso chiedere, timidi sorrisi che precedono l’assedio vero e proprio alimentato dal vedersi nel display. Il mistero legato alla riproduzione della loro immagine li fa ridere dei loro bellissimi sorrisi. Le imposte decorate con disegni colorati fanno della casa dell’anziana tessitrice la più originale, forse per il suo talento nell’accostare e creare geometrie e colori. Infine dalla porta decorata esce una giovane ragazza che le si accosta, ha il neonato avvolto in un tessuto a righe, ci guarda con i suoi occhi belli ma non sorride. Torniamo sulla strada maestra e proseguiamo inseguendo un appunto letto da Vanni qualche giorno fa ovvero che domani mattina a partire dalle 6.30 si svolgerà ad Ointasi il mercato settimanale. Saranno in vendita i prodotti artigianali portati dai villaggi limitrofi ed il momento migliore per vederlo è la mattina presto, quando le contrattazioni iniziano ed il mercato prende vita. Per evitare la levataccia decidiamo di andare ora deviando da Nikiki all’incrocio mimetizzato tra le case del paesino ed impiegando un’ora e mezza per percorrere i trenta chilometri di disastrata strada di montagna arriviamo senza riconoscerlo nel piccolo paese immerso nella rigogliosa vegetazione che ci ha accompagnati lungo tutto il tragitto. Avanziamo incerti, senza individuare l’area dove si svolgerà il mercato, ma Vanni che è certo di trovare una banca qui in mezzo alla foresta infine la trova allontanando definitivamente il dubbio di non aver ancora raggiunto l’obiettivo. Ferma di fronte alla banca approfitto della posizione eretta finalmente riconquistata per fare due chiacchiere con l’impiegato mentre attorno a noi si sono radunate le persone che pur non capendo una parola guardano curiose quello che deve sembrare loro un film muto. Poi ridono ascoltando il racconto dei nostri viaggi tradotto dall’impiegato che si pavoneggia e si preoccupano sapendo che in paese non esistono stanze disponibili dove poter dormire. Infine accettiamo senza esitare il generoso invito di Jimmy che dopo aver accompagnato Vanni alle poste si offre di ospitarci per la notte. Prende così inizio il piacevole pomeriggio insieme e dopo aver fatto la spesa per la cena passando da una bancarella ad un negozietto, da un sorriso ad un altro, dalla mano rugosa di una anziana signora in pareo a quella forte di un signore con il rossetto, riempiamo un paio di sacchetti ed entriamo nella casa di Jimmy. Grande e colorata di un verde acceso è coperta da un ampio tetto di lamiera ondulata più alto dei muri sottostanti che garantisce la necessaria ventilazione naturale. E’ con noi Tony, l’inseparabile amico diversamente abile che ci conquista per la simpatia, la dolcezza, ed i suoi grandi occhi buoni. Infine siamo tutti impegnati, io a scrivere seduta sul letto del nostro ospite che sta preparando la cena, Vanni sta sistemando la tenda dove dormiremo e le birre si stanno raffreddando in frigorifero, la situazione è perfetta così come la cena condivisa. La conversazione accompagna le ottime tagliatelle al pomodoro, il riso ed i pomodori freschi ma la tipica salsa hot è decisamente fuori dalla nostra portata. Non dimenticheremo mai il piacere di questa serata che si svolge all’insegna del puro piacere di stare insieme, di conoscerci reciprocamente , così emozionante da strappare un momento di commozione a Jimmy, felice di ospitare per la prima volta nella sua casa noi viaggiatori stranieri.

22 settembre 2015

OINTASI – BOTI – KUPANG

Non è ancora l’alba quando il gallo salito sull’albero accanto alla tenda inizia a cantare emettendo suoni potenti. Sentiamo da lontano l’arrivo di camion carichi ed auto e poco dopo il mercato è già in fermento. Riconquistato il sonno ci svegliamo definitivamente verso le sei e trenta, poi dopo aver tergiversato in tenda fino a quando il calore diventa insopportabile, esco rinunciando alla comodità del materasso tutto mio. Vanni è già al mercato con Tony e Jimmy sta lavandosi lasciando scivolare sulle gambe l’acqua della vasca dietro casa raccolta dentro un mestolone di plastica. E’ un metodo molto usato qui, forse per non perdere il senso della quantità di acqua che si sta utilizzando. La colazione che Jimmy mi offre è pronta sul tavolo, il tè ancora fumante, una zuppa di verdure accompagnata dal riso e le pagnottelle dolci che sembrano ancora in lievitazione per il colore chiaro, la consistenza molle e l’odore di lievito ancora in fermentazione che esce dal contenitore aperto. Poi arriva il momento di andare tutti insieme al mercato. Alle otto l’atmosfera che vi si respira ha il sapore di un evento del quale si sono perse le prime battute ed i venditori vestiti come da tradizione sembrano qui da sempre, da quel passato remoto che risale alle origini della cultura animista timorese. Le signore indossano l’ikat, una gonna costituita da cilindro di tela variopinta tessuta a mano, fermata in vita con una cintura di stoffa. Il capo è coperto con il sarong, un pareo leggero che avvolge lo avvolge mollemente. La maggior parte dei prodotti in vendita non sono dissimili da quelli di altri mercati, montagnole di sale fino, le verdure che ognuno ha raccolto nel proprio orto a giudicare dalle quantità in alcuni casi molto ridotte, foglie di tabacco e molto altro, compresi quelli estremamente vari che noi in generale bolliamo come made in china. I prodotti locali saltano subito all’occhio perché mai visti prima e per la stranezza del loro utilizzo del quale ci parlano i nostri amici. I semi di Betel vengono raccolti da una particolare varietà di palma e sembrano grandi olive verdi, servono a rinforzare i denti e quando masticati danno un leggero senso di ebbrezza. A contatto con la saliva si tingono di rosso acceso che colora denti, labbra, lingua e tutto ciò che ne viene in contatto. Il loro effetto eccitante si esalta se associato alla polverina bianca del Kapur venduta contestualmente e confezionata in piccoli pacchetti trasparenti ed alle foglie Sirih Pinang che sembrano fili d’erba. Per questo motivo molti dei presenti sembrano avere un rossetto abbondante e sbavato come quello dei clown. Vanni mi viene incontro sorridente, come sempre ha notato una cosa molto particolare se non unica, i carretti si fanno largo tra la folla grazie a due pezzi di lamiera fissati alla base che fatti strisciare sull’asfalto emettono un rumore graffiante efficace quanto un campanello. Poi mentre camminando tra la folla vedo lui, un signore old stile che vende i due Ikat appoggiati sulla sua spalla, sono a righe ed hanno magnifici colori. Mi chiede una cifra spropositata rispetto ai prezzi correnti ed anche Jimmy sconsiglia l’acquisto per il quale non c’è modo di trattare. Eppure con il passare del tempo il desiderio cresce fino a farmi considerare del tutto legittima la richiesta di un milione di Rupie ovvero di settanta dollari per ognuno. Uno sproposito, inizia così la ricerca dell’introvabile venditore ed a nulla valgono le informazioni chieste agli altri venditori da Jimmy. Inizia la leggera sofferenza che mi accompagna fino all’ingresso nella Business Room del Re di Boti dove di fronte al costo radoppiato di quegli stessi parei il pentimento raggiunge il top per poi smorzarsi completamente. Portiamo al re l’omaggio dovuto, quello che da sempre è stato donato a quelli che come lui avevano un regno seppur piccolo qui a Timor. Semi di Betel, sale e le magiche foglie, il mix che garantisce lo sballo. Questo re si chiama Namah Benu, il suo regno che conta trecento anime è l’ultimo rimasto sull’isola perché nascosto dalla foresta ai colonizzatori olandesi ed ai cacciatori di teste. Lo raggiungiamo percorrendo la strada non asfaltata, scoscesa ma in buono stato che si snoda per diciannove chilometri da Ointasi. Oltre un vialetto immerso nella vegetazione, sotto la tettoia accanto alla sala del trono il re e la famiglia ci accolgono offrendoci in segno di ospitalità il caffè accompagnato da fette di banana secca e patate dolci lessate. Siamo seduti su sedie di plastica a guardare le foto appese alla parete ed ascoltiamo la traduzione stentata di Jimmy e Tony che nonostante la vicinanza al loro paese faticano a capire il dialetto del regno. Osserviamo le loro bocche tingersi di rosso e poi anche le labbra sulle quali aiutandosi con il dito spargono il liquido in modo sommario. Nel frattempo abbiamo visto lo spazio interno della casa con il trono di legno, le poltroncine di plastica sfondate e tante foto appese alle pareti tra cui quella che ritrae il re che lo ha preceduto accanto al presidente indonesiano che conferma la sua importanza della quale avevamo dubitato ed il riconoscimento del regno di Boti. Siccome la modestia non si addice ad un re, Namah dice di essere conosciuto in tutto il mondo e Vanni che per modestia non è da meno vuole essere fotografato accanto a lui in tutte le situazioni possibili, infine scatto così tante foto da mandare in sofferenza il re che iniia ad avere l’aria di chi non vede l’ora di congedarsi da noi visitatori troppo esigenti. Usciti dalla casetta di rappresentanza ed attraversata nuovamente la tettoia gironzoliamo all’ombra di palme ed alberi tra le ordinate case di bambù, le ampie tettoie circolari e le cucine a forma di pagliaio accessibili in ginocchio attraverso un’apertura alta non più di ottanta centimetri, il tutto immerso nella vegetazione rigogliosa del regno. Terminato l’aspetto rappresentativo della visita veniamo invitati a firmare il registro delle visite ed a pagare diecimila rupie a testa. acquistiamo anche un bel cavallo con cavaliere scolpito nel regno scuro per quella che nel tempo è diventata la nostra collezione. Torniamo ad Ointasi dopo una sosta fortemente voluta dai nostri amici alla bancarella che espone bottiglie piene di birra locale bianca, dolciastra e che fa volare, dicono. Il commiato è commovente ma veloce perché siamo quasi fuori orario per raggiungere Kupang prima che cali il buio. Ci aspettano centotrenta chilometri di strada di montagna ed un numero imprecisato di centri abitati da attraversare prima di raggiungere il capoluogo dove infine arriviamo nella luce fioca dei lampioni, l’Hotel Swiss Bel Inn Kristal ci accoglie con una bellissima vista sul mare che osserviamo ora in relax pensando a questa giornata faticosa ma bellissima.

23 settembre 2015

KUPANG

Rimango in camera a lungo senza fare nulla, mi piace avere il tempo per assaporare il piacere del viaggio, e mi piace ogni tanto non dovere parlare o rispondere, dedicandomi a quella che chiamo solitudine attiva. Scrivere e soddisfare qualche curiosità sul web, cercare le immagini dei luoghi che potremmo vedere, le possibili sistemazioni, un nome dimenticato o allettanti fuori programma in arcipelaghi non troppo sfruttati, piccoli paradisi nascosti tra le diciassettemila isole indonesiane. Il Karimunjawa National Park ed il meraviglioso arcipelago Raja Ampat, lontani ma raggiungibili in aereo potrebbero diventare un bel regalo di fine viaggio. Vanni ha incontrato Pius poco dopo le nove, sbrigheranno insieme gli impegni in elenco, il più importante dei quali è raccogliere informazioni al porto per l’imbarco di domani. Sono le sue prime ore di lavoro come interprete e mentre li immagino insieme mi chiedo come se la caverà nel soddisfare oltre alle normali incombenze anche i capricci del mio amato consorte. Pur non avendolo ancora incontrato sono perplessa le premesse infatti sembrano allontanarlo dal mio stereotipo di compagno di viaggio ideale con il quale avere un rapporto di complice leggerezza. Pius è rientrato a Kupang solo un paio di mesi fa dopo cinque anni di formazione sacerdotale a Roma. Insieme potremmo essere il diavolo e l’acqua santa.
Sono bastati i primi cinquanta metri percorsi nel pomeriggio lungo la strada che corre parallela al mare per pentirmi di aver varcato la porta dell’hotel. L’idea era quella di raggiungere il Lavalon per un aperitivo al tramonto che avrei condiviso volentieri telefonando ai ragazzi. Un pretesto per dare un’occhiata alla città e capire perché Kupang non rappresenti una tentazione per i viaggiatori che la raggiungono solo per poi ripartire in nave o in aereo. In pochi minuti la risposta è arrivata ed il localino è diventato irraggiungibile per la sgradevole sensazione di vulnerabilità che mi hanno trasmesso i commenti urlati, le risate grasse e perché no, le strane manovre dei Bemo che mi hanno volutamente sfiorata un paio di volte. Sono minibus caratteristici per le grandi immagini serigrafate sulla carrozzeria e le decine di antenne che spuntano dal tettuccio. Dal portello laterale sempre aperto si sporge in genere un ragazzino che trattiene nella mano libera un pacchetto di banconote ed accalappia i clienti dalla strada per portarli a destinazione. La sensazione di camminare in una città abitata da scimmiette dispettose e moleste mi fa desistere e dopo un paio di chilometri decido di invertire la rotta. Il sole è già basso e Kupang è per pericolosità seconda solo a Jakarta, meglio non rischiare. Raggiunto Vanni andiamo insieme al vicino Lounge Terrace, per una piacevole serata di programmi e chiacchiere, musica e Margarita.


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25 Flores Island


24 settembre 2015

KUPANG – LARANTUKA

Pius e Regina sono seduti sul divanetto della reception quando li incontriamo per la colazione insieme. E’ stata una loro idea, un modo carino di soddisfare la curiosità di Regina che vuole sapere in compagnia di chi sarà Pius quando lo immaginerà in viaggio. Molto diverso da come lo avevo immaginato Pius mi è piaciuto subito anche per le contraddizioni presenti nella sua esile figura. Sembra un Rasta ma è un ex seminarista ed è stranamente nato ad Ointasi, il paese nel quale abbiamo vissuta una delle più belle esperienze. Magrissimo e con gli occhi grandi, il suo sorriso risalta sulla pelle scura, non alza mai il tono della voce persino troppo basso, sembra timido ed ha paura di sbagliare. Poi seduti al tavolo di fronte alle nostre colazioni, nonostante la babele di idiomi iniziamo a conoscerci e ci congediamo infine avendo le idee abbastanza chiare di ciò che ognuno di noi ha voluto mostrare di sé agli altri. Salutata Regina non resta che raggiungere il porto dove sbrigate le formalità percorriamo il piazzale ed affrontiamo il difficile imbarco. Il caos è tutto concentrato nella stiva del ferry e l’imbarco di Asia sembra un’operazione difficile. Tutto e tutti si muovono contemporaneamente verso il portellone aperto, i passeggeri, le merci, i venditori ambulanti, le auto, i camion ed i motorini. La confusione in stiva è talmente esasperata da sembrare paradossale, qualcuno si starà chiedendo come faranno i mezzi ad entrare se nessuno si disperde salendo in coperta? Eppure anche Vanni viene incoraggiato come gli altri autisti a spingersi in retromarcia contro ai corpi di chi osserva senza arretrare se non all’ultimo momento, come i parabordi che aspettano l’urto per contrastare la spinta. Sono le persone che trascorreranno la notte su cartoni stesi sotto i camion e che volendo essere certi del loro spazio non si muovono, e sono gli ambulanti che vendono stuoie, cibo pronto, snack, frutta e fazzoletti di carta piazzati alla base delle scale. Al volante di Asia Vanni esegue le manovre fino ad incastrare l’auto in un angolo che sembrava improbabile, poi come una presa in giro arriva l’ordine di uscire per fare entrare due camion sbucati dal nulla e viene quindi reindirizzato in un parcheggio più comodo accompagnato dagli sberleffi, e le grasse risate vomitate da quei corpi a pochi centimetri da lui. Infine siamo dentro, il portellone viene chiuso e riaperto un paio di volte per fare entrare i passeggeri ed uscire gli ambulanti ritardatari, e finalmente partiamo. Pius è riuscito a trovare per noi una cabina e ci accompagna in quella abitualmente occupata dai due macchinisti che l’hanno ceduta per 700.000 rupie. Mentre ci accomodiamo scalzi nel loro personalissimo nido Amien e Latif afferrano in fretta i vestiti appesi all’attaccapanni e poco altro lasciando a noi il frigorifero pieno, il gallone d’acqua ed il loro necessario per la vita a bordo. I materassi sono ergonomici ma la cabina è un simpatico involucro color salmone disseminato di effetti personali. Non resta che oltrepassare la porta per godere della brezza e muovendo due passi in coperta osservare la vita di bordo a partire dai due grandi tavoli sotto la pensilina attorno ai quali alcuni passeggeri sono riusciti a sedersi per mangiare. Una signora ha smontato i contenitori impilati e sta mettendo sui piatti di alluminio il pranzo per la sua numerosa famiglia, riso, pesce fritto e verdure lessate, altri portano alla bocca il tipico riso condito avvolto in coni di carta gialla, altri osservano il mare o giocano con il cellulare, Vanni e Pius stanno continuando la loro conoscenza. Ingolosita vado in cerca di cibo nel livello inferiore dove dovrebbe esserci un piccolo bar oltre il dormitorio. Attraversarlo è come percorrere il set di un film drammatico per i giacigli a castello dove la gente è serenamente stesa che sembrano far parte della ricostruzione cinematografica di una camerata di un campo di concentramento. L’assenza di cibo fresco giustifica il successo degli ambulanti alla partenza ma i noodles liofilizzati con l’aggiunta di un pò di acqua calda sono buoni e sfamano. Estraniandoci poi dal contesto familiarizziamo con l’equipaggio entrando timidamente nel ponte di comando dove all’iniziale distacco si è presto sostituita la cortese curiosità fatta di reciproche domande e sorrisi abbozzati. Sono tutti gentili e puliti e per contrasto diventano il nostro paradiso. Il secondo step di approccio parte dalla macchina fotografica con le inquadrature in posa del comandante ed i secondi che si avvicendano al timone. Solo loro, io e Vanni con loro, solo Vanni e poi giù nel ventre caldo del ferry, la sala macchine di Amien che avendo saputo delle foto ci invita sudato ma con il sorriso felice a seguirlo nel frastuono assordante dove i riflettori illuminano a giorno i due potenti motori verniciati di fresco che risaltano come gioielli nella sala. Sul ponte di coperta, stesi sulle stuoie molti stanno già dormendo anestetizzati dal vento fresco della notte in mare, altri sono seduti a chiacchierare, tutti hanno l’aria stanca per il lungo viaggio non ancora finito. Alle quattro Pius bussa alla porta, stiamo entrando nel porto di Larantuka e dobbiamo scendere in stiva per prepararci allo sbarco prima dell’attracco. Sottocoperta le persone sono accavallate, sedute sugli scalini, appoggiati ovunque. I visi provati dal disagio ed i cartoni ancora stesi sotto i camion tra i rigagnoli di pipì che calpestiamo per raggiungere Asia, uscire e poi dimenticare.

25 settembre 2015

LARANTUKA

Il tè all’alba accompagnato da banane fritte in pastella ci sveglia definitivamente. Seduti all’ombra della breve tettoia che precede la nostra camera al Lesthari Hotel, sentiamo arrivare tutta l’energia di questo nuovo inizio, come se Timor fosse stata per noi solo il prolungamento di Timor Leste e la premessa del nostro arrivo in territorio indonesiano. Siamo in compagnia di Sandy, il cugino del proprietario dell’hotel che noleggia una barca da crociera di legno, una specie di piccolo caicco che viaggia tra le isole di Bali, Lombok e le minori di grande bellezza. Una possibilità per vedere dalla migliore prospettiva le isole, gli atolli ed avvicinarsi a queste barriere coralline di grande bellezza. Vanni ne è quasi convinto ma poi si limita a prendere nota del contatto. Non è tempo di programmi a lunga scadenza ed il piacere del nostro viaggio è legato alla casualità dei suoi possibili sviluppi. Vanni intanto è sparito con Pius in cerca di fusibili ed io andrò tra poco a cercare l’attrezzatura per lo snorkeling. Sandy mi accompagna gentilissimo anche alla chiesa Portoghese della quale va fiero ed a passeggio lungo le piacevoli strade della piccola Larantuka che in leggera pendenza collegano il mare alla foresta retrostante. Dai negozi che si prolungano ad occupare parte dei marciapiedi spuntano le teste velate di vivaci signore musulmane che fanno cenni di saluto ed orientano lo sguardo verso i prodotti in vendita. Molti passano urlando Mister, good morning Mister, solo i bambini sanno che io invece sono una miss e lo pronunciano piano, quasi sussurrandolo timidamente. L’episodio più divertente della giornata è arrivato nel tardo pomeriggio quando salendo in auto al belvedere Vanni attento come un segugio vede un ragazzino accovacciato sul bordo strada mentre taglia i capelli ad un suo coetaneo. Sono in prossimità di un quartiere periferico dove le case di legno e bambù sono distribuite tra la Vegetazione rigogliosa. La vista seppur suggestiva del mare dall’alto non è così interessante da trattenerci a lungo e Vanni è già oltre, tra quei ragazzi che raggiungiamo con una veloce discesa. Seduto sul bordo della strada, là dove l’asfalto finisce, la sua barba bianca è presto distribuita come il sale sulle braccia scure del ragazzino con le forbici. Non è stato semplice convincerlo, titubante di fronte alla barba ed alla pelle chiara, ma l’operazione decolla e la professionalità emerge. Sono arrivati in molti ad assistere allo spettacolo, le donne, i ragazzi ed i bambini del villaggio ridono, scattano foto, si divertono. Una signora molto più concreta parla di dollari, un’altra parla di un ingaggio a Roma, ma il quattordicenne continua senza esitare, muovendosi agilmente accovacciato di fronte alla barba di Vanni ora in brodo di giuggiole… si ferma, valuta e poi attacca con le sue forbici per concludere al meglio la sfida che ha raccolto. E’ una festa per tutti e tutti ne usciamo soddisfatti, io per le foto, Vanni per l’aver creato una situazione insolita ed avere la barba tagliata alla perfezione, il barbiere bambino per il lauto guadagno ed il riconoscimento del suo talento, tutti gli altri per il divertimento del momento e per quello che seguirà nei racconti. Ceniamo in una tavola calda nel mercato di fronte all’hotel. Un tavolone e due panche coperte da un telone di plastica, una vetrinetta di pesce fresco che mangeremo arrostito con il contorno di riso ed una Bintang large alla spina.

26 settembre 2015

LARANTUKA – MONI

La Flores Hwy attraversa longitudinalmente le montagne dell’interno collegando Larantuka a Labuan Bajo e costeggia il mare solo in corrispondenza di un paio di località che sappiamo essere lontane da ogni tentazione di sosta.
Il manto stradale perfetto ci consente di godere del bel paesaggio comprese le rare apparizioni di superfici blu in lontananza che ci ricordano che di un’isola appunto si tratta. Montuosa come tutte le isole di origine vulcanica ne vediamo alcuni coni ben definiti ricoperti della rigogliosa vegetazione tropicale che si aprono in vallate di risaie di un verde così brillante da ingolosire. Vanni è in forma al volante accanto a me e Pius riposa in silenzio nel sedile posteriore “sacrificato” dal suo voluminoso zaino, le macchine fotografiche e le giacche che non hanno trovato posto altrove. Nel retro dell’abitacolo di Asia infatti le poche valigie sono state incastrate da Vanni secondo una composizione impeccabile attorno alla ruota di scorta ed al malandato inutilizzabile pneumatico senza cerchione che occupano buona parte dello spazio disponibile.
Ci distrae dal contesto il suono di tamburi che incalza sempre più forte con l’avvicinarci al centro abitato di Maumere dove nel cortile di una scuola la scolaresca è impegnata con le prove generali di una parata con banda e majorettes. Forse solo per interrompere la monotonia del viaggio e recuperare l’uso delle gambe decidiamo di fermarci a dare un’occhiata. La banda al completo posa volentieri in vista dello spettacolo ma i piccoli esclusi dalle prove alle quali partecipano solo come spettatori si scatenano e scavalcando il muretto accerchiano l’auto ed assediano Vanni rimasto a bordo.
Intanto la strada si muove sinuosa salendo e scendendo in curve a gomito e tornanti parabolici e sovrastando piccole vallate di meravigliosi palmeti che fanno sognare almeno quanto le piantagioni di cacao. In corrispondenza delle cime più alte, vicine a gruppi di casette di legno e paglia le fave scure e irregolari del cacao sono stese ad essiccare sopra teli di plastica appoggiati sull’asfalto dei bordi strada, sono le ultime di una stagione di raccolta ormai agli sgoccioli e ad ogni accenno di pioggia le fave vengono spostate con pazienza in sacchi di plastica. La produzione ora è orientata sui chiodi di garofano che emanano anche a distanza il loro buon profumo.
Dopo 220 km di curve e di montagne, alle quattro del pomeriggio ci fermiamo al Daniel Lodge di Moni. Solo tre camere gestite dal simpatico proprietario che ci consiglia un bagno rinfrescante sotto la vicina cascata prima della cena al ristorante Santiago dove consumiamo l’ottima cena condita con olio di oliva che trovato qui sembra un miracolo.
Rientriamo in tempo per assistere al raccapricciante divertimento di un gruppo di ragazzi imbecilli che stanno uccidendo dei polli afferrandoli al collo e poi gettandoli per terra. Mi fermo, urlo un paio di inutili insulti e proseguo in lacrime fino alla camera con bagno sporco come da tradizione.

27 settembre 2015

MONI – ENDE

A nanna alle otto di sera e sveglia alle tre e mezza di notte, è stato questo il necessario sacrificio per assistere al miracolo delle acque turchesi di uno dei tre laghi del vulcano Kelimutu.
E’ ancora notte quando usciamo dal tepore del nostro letto per salire sull’auto del nostro accompagnatore locale, un signore basso e magrissimo avvolto in un tubo di morbido tessuto che lo fa sembrare un elfo. Nonostante il buio pesto di questa notte senza stelle e senza luna il nostro autista guida con la sicurezza di chi ha in memoria ogni curva della ripida strada ed in trenta minuti ci conduce al parcheggio del parco nazionale dal quale parte il sentiero immerso nell’oscurità.
Mi incammino sola facendomi strada con l’aiuto della torcia che disegna un alone di luce piuttosto debole ma che resiste per l’intera passeggiata attraverso la foresta che precede la roccia immacolata delle tre caldere. La notte mi emoziona ma la luce lontana di un’altra torcia mi rilassa così come la relativa vicinanza di Vanni, Pius e l’elfo distanti solo del tempo di una sigaretta. L’illusione di essere arrivata tra i primi sparisce di fronte ai tanti venditori ambulanti già seduti sui gradini del belvedere, con i loro thermos di bevande calde e le colazioni a cui nessuno ha pensato. Infine vediamo delinearsi neri i contorni in risalto degli speroni di roccia rischiarati dall’aurora appena iniziata, poi le nuvole rovinano lo spettacolo coprendo i raggi incidenti del sole all’alba che avrebbero resa la superficie del lago come una tavola di un turchese intenso e innaturale. Non sapendo quanto magico sarebbe stato quel colore nelle condizioni favorevoli del cielo limpido osserviamo soddisfatti la bellezza del paesaggio e di quell’acqua azzurra e iridescente di fronte alla quale rimaniamo a lungo in attesa di un miracolo.
Lasciato il Daniel Lodge ci avviamo poi verso la città di Ende a soli cinquantacinque chilometri di distanza e diverse ore di viaggio per la strada bloccata da una frana e la deviazione che facciamo per raggiungere un bel villaggio tradizionale circondato dalla rigogliosa vegetazione della foresta. Una volta raggiuntala impieghiamo poi ore per trovare il centro città, Vanni dice che ce ne sono due, Pius dice che il centro non c’è ed il ragazzino in moto cui abbiamo chiesto ci accompagna in un bar sulla spiaggia, lunga e nera che si spinge sul mare bianco di questo nuvoloso tardo pomeriggio.
Contento della birra che gli abbiamo offerto non molliamo il ragazzino fino all’ora di cena quando grazie alla sua pazienza troviamo in un colpo solo il centro di Ende ed il ristorante Roda Baru con le sue pietanze fredde ed il Moto GP a tutto volume. L’hotel SYifa non è più tranquillo del ristorante ma è il Wi-Fi che fa la differenza e la simpatia di chi ci ha accolti. Stiamo bene.

28 settembre 2015

ENDE – BAJAWA

La bella sorpresa di oggi è a Nord di Ende, oltre il vulcano a strapiombo sul mare che segna il limite della città, è la costa che seguiamo per quarantacinque chilometri. La strada è bellissima con le sue alte costiere a strapiombo e le curve che si susseguono senza sosta come in una pista che non si chiude mai. Ma il regalo dura poco e senza accorgercene siamo di nuovo all’interno, là dove l’isola scompare per tornare ad essere montagna, i vulcani si aprono in piccole vallate scoscese e le curve di livello sono disegnate dai gradoni delle risaie. Poi i tornanti si impennano fino al valico del vulcano più alto, dove il cielo si copre di nuvole nere, piove e la temperatura si abbassa drasticamente. Non va meglio sui mille metri di Bajawa dove il freddo ha riempito anche la nostra camera nel B&B Happy Happy, il bozzolo color lilla pulito e con i soffitti alti. Bena è il villaggio tradizionale nei pressi di Bajawa che si trova quindici chilometri più a valle della strada principale, sorto sulle pendici del cono perfetto del vulcano che lo sovrasta altissimo e potente. Adagiato sul fazzoletto di terra sottratto alla foresta che sembra fagocitarlo, il villaggio si articola in due stecche di capanne che convergono a imbuto verso lo sperone di roccia sullo sfondo. Sono tutte uguali ed accostate a dente sul terreno in leggera pendenza che salendo verso il fondo crea lo scenografico effetto prospettico che rende il villaggio particolarmente bello. Le capanne sono costituite da due camere rettangolari di legno sovrastate da bellissimi tetti alti e sproporzionati nella volumetria complessiva. Sono di paglia rasata e scura e salgono incurvandosi come due onde che si fronteggiano. Il bambù tagliato in senso longitudinale e montato come una copertura di coppi forma l’originale tetto delle logge antistanti. Come da tradizione animista le capanne si distinguono in femminili e maschili attraverso le piccole figure collocate in cima al tetto. Al centro delle due stecche ci sono gli elementi simbolici dei clan familiari ancora differenziati per forma e significato in base ai sessi. La casetta per il femminile ed il grande ombrello di paglia per il maschile sono decorati con bassorilievi e disegni che rappresentano ulteriori, indecifrabili simboli. Ogni evento è celebrato con il sacrificio di animali ed il tributo base per la costruzione di una nuova capanna è di cinque bufali il cui sangue viene spruzzato attorno e sull’altare del sacrificio. Qui a Bena risiedono i capi di nove clan ovvero di nove villaggi vicini ed in occasione della grande cerimonia annuale del ventiquattro dicembre che raccoglie in questo luogo l’intera popolazione animista indonesiana su questo altare vengono uccisi ben cento bufali. Per distrarmi mi dedico alla fotografia, cercando di cogliere tutto il fascino di quelle anziane signore in abiti tradizionali, ma ogni volta che incrocio i loro occhi penso a quante uccisioni devono aver visto nel corso delle loro eterne vite. E’ quasi buio quando ancora infreddoliti per il diluvio di Bena rientriamo al B&B, e sembra già notte quando entriamo al ristorante Lucas scelto solo per l’aspetto invitante delle sue luci calde e subito escluso per la qualità del servizio e del cibo.

29 settembre 2015

BAJAWA

Le terme sono nei pressi del villaggio di Bena, per questo il capotribù conosciuto ieri si è offerto di accompagnarci in vista di una ricompensa in cambio del disturbo. Indossa un pareo colorato tessuto a mano ed il suo machete infilato nella cintola, ci spiega Pius, sottolinea la sua importanza nella gerarchia del clan di appartenenza. Anche per questo oltre che per la riconoscenza che gli dobbiamo lo assecondiamo cedendogli il posto accanto a Vanni. E’ timido e quasi impacciato come chi non è solito spostarsi in auto, ma la foresta gli appartiene ed è con una sorta di autocompiacimento che ci conduce lungo il breve sentiero che scende dalla strada verso il ruscello. A turno entriamo nel micro spogliatoio di canne isolato sulla terra battuta, poi muovendo qualche passo incerto ci sediamo nell’acqua tiepida e veloce cercando un incastro tra i sassi levigati e un ancoraggio per non essere portati via dalle piccole rapide. Vanni si diverte abbandonandosi alla corrente fino alla spiaggetta più a Valle, Pius che si vergogna della sua magrezza rimane sempre immerso nello stesso punto mentre io cerco il massaggio più efficace per drenare la cellulite. Il capo tribù invece rimane seduto su un pietrone fuori dall’acqua e non sapendo cosa fare guarda la bella signora che sta facendo il bucato nel ruscello di acqua fredda poco più a monte. Poi scendiamo a piedi sul bordo del ruscello per vedere le balze che disegnano delle pozze arcuate meravigliose circondate dalla foresta che vi si protende. Poi tutto il piacere svanisce di fronte ai noiosi megaliti che troviamo dopo una lunga ricerca sparpagliati tra l’erba secca. Vedendoli capiamo perché nessuno nel villaggio è riuscito a darci indicazioni precise sul sentiero da percorrere per raggiungerli, se non il signore anziano che ci ha accompagnati senza entusiasmo di fronte a queste pietre grigie appuntite raccolte a gruppi, gli altari sui quali venivano fatti i sacrifici. E’ il rotolo di carta igienica appoggiato sul tavolo del ristorante cinese a farci ritornare il sorriso, il lungo tovagliolo alternativo che fa passare in secondo piano l’orrore della zuppa color brodo slavato, densa e scivolosa come i sassi del ruscello.

30 settembre 2015

BAJAWA – RUTENG

Ruteng dista circa 120 km e quattro ore di viaggio. Partiamo a metà mattina aggirando il grande vulcano Inerie che ora si mostra nelle nuove prospettive disegnate dalla strada sinuosa mai percorsa. La sua sagoma sprofonda incerta dietro i rilievi in primo piano e poi scompare inghiottita dalla foschia densa della foresta ancora umida di pioggia. Poi dopo un tempo che sembra infinito il breve passaggio lungo la costa di Aimere ci restituisce il piacere del rettilineo e del mare la cui linea perfettamente orizzontale ci appare ora come la realizzazione di un sogno e la scogliera appena intravista lo scorcio più suggestivo della nostra vita nonché l’indice del nostro esaurimento. Una famiglia di macachi approfitta del viavai per mangiare ciò che i viaggiatori divertiti lanciano dai finestrini. Sono molto graditi anche i nostri mandarini che prima sbucciano con cura ed i biscotti che qualcuno già sazio tiene sotto il braccio come un giornale. La sosta causata dai lavori in corso per liberare la strada da una frana di roccia sveglia Pius sempre più a suo agio sul sedile posteriore ed offre a noi la possibilità di fare due passi. L’inconveniente per gli automobilisti si è trasformato in un business per gli ambulanti che hanno allestito probabilmente nei giorni scorsi delle bancarelle provvisorie, e per quelli che arrivati sui motorini con le vetrinette smontabili hanno offerto ai malcapitati il cibo caldo. Come mosche bianche abbiamo attirato l’attenzione di una banda di ragazzini che pur non offrendo nulla in cambio hanno sfruttato la situazione per elemosinare denaro. Le mani aperte sui finestrini semichiusi curiosi di vedere il potenziale tesoro appoggiato sul sedile posteriore e nel bagagliaio e poi all’opera nel cercare di aprire con discrezione lo sportello posteriore che avevo chiuso vedendoli dallo specchietto retrovisore. Il vantaggio in questo caso è che è bastato un urlo per farli scappare. Raggiungiamo la città in pochi minuti e con lei la nostra camera nella sede della congregazione di Santa Maria Berdukacita, spartana e con il crocifisso di fronte al letto stranamente matrimoniale. L’obbligo del rientro prima della chiusura del cancello alle nove di questa sera è funzionale alla colazione in refettorio tra le sei e le sette e trenta di domani mattina, prima che le consorelle inizino a studiare su quegli stessi tavoli. Ma il vincolo non pesa perché a Ruteng la vita si addormenta a quell’ora. Ora però c’è fermento attorno ai barbecue sul bordo strada dove il fumo si spande ed i phon o i ventilatori accesi ravvivano le braci. Infine raggiungiamo lo “Spring Roll”, l’ottimo ristorante indicato a Pius dalle giovani suore che a giudicare dall’entusiasmo dimostrato nel vederlo ed allo scambio di numeri di telefono che ne è seguito deve avere in passato fatto strage di cuori. Pius piace.

01 ottobre 2015

RUTENG – LABUAN BAJO

Il cartello di divieto di accesso là dove avremmo dovuto svoltare ed il conseguente malumore di Pius al mio rifiuto di procedere hanno segnato l’esordio di questa giornata spesa per raggiungere la città di Labuan Bajo, sulla costa occidentale dell’isola di Flores. Il ricordo dei filmetti di Sandokan e la perla di Labuan per quanto scontato arriva spontaneo, come il sollievo di aver raggiunto un obiettivo importante e con lui il mare. Da qui partirà tra qualche giorno il traghetto per Sumbawa, la prossima isola della lunga catena indonesiana, domani invece dal pontile di un hotel ancora da trovare partirà il motoscafo per la piccola isola Seraya Besar, il regalo di Vanni per il mio cinquantaduesimo compleanno, non l’isola ovviamente ma il soggiorno nell’omonimo Resort. Intanto però non abbiamo prenotazioni per l’hotel in città e nessuno risponde ai pochi numeri di telefono a nostra disposizione, non resta che collegarci a internet per qualche minuto e cercare su booking una possibile sistemazione. Il Waecicu Beach Inn è fuori città, sulla breve spiaggia contenuta tra basse scogliere ed i coni dei due vulcani al largo rendono magnifica la vista dal suo giardino fiorito. Allora perché siamo gli unici ospiti dell’hotel? Il motivo arriva percorrendo le passerelle di legno che portano alle camere, le cui assi vanno calpestate nel punto giusto per evitare che si rovescino ed in generale per l’incuria nel quale versa questo hotel con vista. La gentile accoglienza ed il sole al tramonto miracolosamente sceso tra i due vulcani hanno poi allontanato ogni perplessità, così come la cena in terrazza in compagnia di Augustino, il simpatico amico nonché ex collega di Pius che avrebbe potuto essere il nostro interprete se non avesse accettato il lavoro all’ambasciata indonesiana a Roma. Bella serata.


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