02 Febbraio 2012

BRAZZAVILLE – KINSHASA

Pierre arriva trafelato in hotel con trenta minuti di ritardo, la fronte imperlata di sudore spende pochi secondi per presentarsi e si precipita subito dopo al porto per raccogliere informazioni sulle formalità da espletare per raggiungere la RDC a bordo del traghetto che arriva a Kinshasa, l’inferno che raggiungeremo tra qualche ora. La corsa contro il tempo inizia già all’una del pomeriggio quando immersi nel traffico del centro cerchiamo di raggiungere nel più breve tempo possibile il piazzale che precede la banchina dove Gazelle si arena risucchiata dalla massa vischiosa di corpi e carretti, l’ultimo traghetto partirà tra meno di un’ora. Lasciato Vanni accanto a Gazelle iniziamo letteralmente a correre per l’acquisto dei biglietti e per i timbri sul carnet de passage entrando in uffici grigi troppo vicini alle toilettes, le sedie già occupate da altri viaggiatori. Quando infine raggiungiamo l’ufficio immigrazione per i timbri sui passaporti Vanni è già lontano, a bordo del piccolo traghetto che si sta allontanando dalla costa, e noi in preda ad un comprensibile panico ci chiediamo come farà a cavarsela senza passaporto e come faremo noi a raggiungerlo, ma il nostro pallore in questo caso ci viene in aiuto perché tutti ormai conoscono il caso dei due bianchi ed appellandoci con il termine “ les italiens “ ci urlano un paio di preziosi suggerimenti. Salgo con Pierre sul taxi trovato come per miracolo all’interno dei cancelli del porto e raggiungiamo un secondo battello in partenza che, colpo di scena, verrà agganciato a quello dove Vanni si sta sbracciando per attirare la nostra attenzione. Chiusi in auto come in un bunker osserviamo il trambusto attorno a noi mentre Vanni teme che la bagnarola non affondi proprio in mezzo al fiume Congo. Come formiche al lavoro i locali vestiti di stracci stipati nel poco spazio disponibile spostano ed accatastano attorno a noi i sacchi che venderanno al mercato nero, ognuno seduto sui suoi per custodirli come tesori, litigano, si offendono contorcendo il viso in smorfie aggressive in una guerra fra poveri che cercano così di sfuggire alla fame a costo di prendere le frustate da parte delle guardie che li aspettano allo sbarco. I militari iniziano ad agitare in aria i loro rudimentali frustini ancora prima che il traghetto sia approdato in banchina, come carnefici in attesa delle loro vittime. Molti passeggeri sono irregolari e di scudisciate ne vengono assestate molte su quei corpi magri e coperti di stracci, così come su alcune donne con i bambini legati sulla schiena. Lo spettacolo è raccapricciante ed è impossibile osservare indifferenti quella che ci appare come una inutile, assurda ed anacronistica violenza, le scudisciate non ostacolano la disperata fermezza di sfuggire alla fame né la necessaria lotta per la sopravvivenza. Poi un ragazzo in manette viene spintonato dietro di me in un angolo dell’angusto ufficio immigrazione dove il giovane impiegato seduto dietro un piccolo tavolo di legno non sembra trovare il momento giusto per timbrare i nostri passaporti, il caldo è soffocante e l’atmosfera non proprio rilassante. Qualche mazzetta distribuita qua e là per liberarci in tempi ragionevoli dalla morsa delle formalità e siamo di nuovo in auto a procedere lentamente verso l’uscita fra le carrozzelle degli invalidi e le file di ciechi che si muovono come serpenti in fila indiana, il braccio teso ad afferrare la spalla di chi precede. Raggiungiamo l’hotel scavalcando cumuli di immondizia, accanto a bambini seduti nei canali di scolo delle fognature, di fronte a misere catapecchie di lamiera e legno, dentro a favelas che trasudano odore di morte. Infine l’hotel Memling e la nostra camera, lussuosa oasi per bianchi, il tranquillizzante e necessario Fort Knox di Kinshasa.

03 Febbraio 2012

KINSHASA

Sebastian vende mappe plastificate della sua città e della sua nazione oltre la porta dell’hotel, oggi però sarà la nostra guardia del corpo ed il necessario dispensatore di consigli per un paio d’ore, un tempo esorbitante rispetto a quel poco che c’è da vedere in città. Il primo importante suggerimento arriva subito dopo aver mosso i primi passi, niente foto si raccomanda, i congolesi non hanno un buon rapporto con le macchine fotografiche altrui e le poche concesse sono i classici banali souvenir con la città sullo sfondo, quelle che solo lui potrà scattarci in qualità di guida locale. Nonostante questo il suo disagio nell’afferrare lo strumento proibito è evidente quanto la pochezza di Kinshasa, città povera e malandata che fa sfoggio della sua deprimente arteria centrale bordata di edifici per nulla interessanti e che termina verso il porto con un orribile monumento che fotografiamo in cambio di una mancia al poliziotto di guardia. L’unica cosa a colpirci oggi è il sole che ci ha resi due tizzoni ardenti, e la squisitezza di un frutto mai assaggiato prima, una melagrana color melanzana contenente una succosa cedevole polpa bianca divisa in spicchi come l’aglio e dal sapore strepitoso composto da un mélange di mandarino e litchi, il suo nome è MANGUSTAN…. da provare! Sebastian arriva puntuale all’appuntamento delle sei in compagnia di due muscolosi amici disposti a picchiare per garantire la mia incolumità, come un padre apprensivo Vanni ha infatti posto condizioni precise alla mia scorribanda nella city ed io ho una gran voglia di ascoltare musica dal vivo in un luogo che non sia un locale per bianchi, per strada andrà benissimo. Il ragazzo con la camicia a fiori è seduto alla guida dell’auto che mi aspetta semi nascosta dietro l’angolo dell’hotel, Sebastian è di fianco a me, visibilmente nervoso osserva la strada come se temesse un’imboscata. Quando raggiungiamo il quartiere è quasi notte e le due guardie del corpo ci aspettano in fondo alla sterrata bordata di rifiuti, siamo arrivati. Il piccolissimo cortile è oltre uno stretto corridoio a cielo aperto, arredato con alcune sedie di plastica, animato da quattro galline volanti che starnazzano in complicate evoluzioni ed infine la band composta da tre chitarre acustiche, tre vocalist ed un ragazzo alle percussioni. Ci stavano aspettando. Pochi metri quadrati e molta atmosfera, melodie cubane con testi in lingua locale, la voce calda ed avvolgente di una giovane cantante, un’ora di concerto e di puro piacere che la situazione e la qualità della musica hanno resa indimenticabile. E che dire dell’originalità delle percussioni povere ma geniali dove un mazzo di saggina, un cartone a sbalzo oltre il bordo di un tavolino, un bongo e due bacchette hanno potuto generare un tale miracolo? Intanto le melodie si fondono con i rumori della strada ed a quello dei polli volanti e un sms in arrivo illumina la tasca della cantante, avrei voluto filmarli e comprare un loro inesistente cd. Non è difficile immaginare che Sebastian debba aver raccontato una bugia per riuscire a farmi entrare come unica spettatrice nell’esclusivo cortiletto musicale e dalle domande che mi vengono rivolte a fine concerto direi che questa sera sono stata una procacciatrice italiana di nuovi talenti. Un ragazzo gentile al quale devo molto questo Sebastian. Il console e Vanni stanno conversando nel bar dell’hotel, due Americani, un Campari e piacevoli chiacchiere, poi tutti a cena al “Limoncello”, un locale alla moda sulle cui tavole viene servita la pasta fresca dell’anziana signora Maria che non sa fare le tagliatelle, ma il locale è piacevole ed il console simpatico e scatenato. E’ per questo che finiamo all’ “Ibiza Bar”, una disco-jazz con musica live rifugio di pallidi occidentali, di immancabili prostitute di colore e questa sera di un ragazzo nero con occhiali da sole ed un fisico stratosferico, la cui testa completamente avvolta da una sciarpa rossa fa di questo un locale di tendenza. Ma Kinshasa ha altro da offrire a chi vi si avventura di notte e così dopo essere usciti indenni dalla eccessiva vicinanza di una banda di storpi che chiedendo denaro vuotano quando possono le tasche dei clienti del locale, siamo assaliti ad un incrocio da una banda di giovani teppisti, lungo le strade deserte della città illuminata dalla luce debole di qualche lampione, le loro braccia cercano di infilarsi oltre i finestrini. Una accelerata, qualche parolaccia e siamo salvi senza dover usare la pistola ad aria compressa del nostro accompagnatore, né il suo manganello telescopico, strumenti necessari per uscire vincitori da possibili attacchi di strada. Mentre assisto leggermente scossa ripenso a quel cortiletto ed alla band che ho avuto il privilegio di ascoltare in questa serata speciale qui nella inquietante Kinshasa.

04 Febbraio 2012

KINSHASA – MATADI

Il sabato è ovunque nel mondo giorno di mercato e noi ne attraversiamo tre uscendo dalla capitale la cui periferia sfuma lontana. Le bancarelle invadono la carreggiata, mandrie di persone vi camminano accanto ed i numerosi minibus fanno il resto bloccandoci per interminabili minuti nel ritmo lento di carico e scarico di vestiti colorati. Preoccupati per i racconti e la disavventura di ieri sera non è stato facile ostentare indifferenza di fronte all’ attacco con pugni sulla carrozzeria di Gazelle e parole urlate da parte di un gruppo di ragazzi, non prestar loro attenzione non ha diminuito la nostra tensione quando bloccati in tutte le direzioni ci siamo sentiti in trappola. Usciti indenni da tre incubi in sequenza troviamo sollievo nel paesaggio e nella strada perfetta mossa dalle colline in torsioni paraboliche, là dove oasi di palme sui prati verdi chiudono definitivamente la lunga parentesi di foresta a perdita d’occhio creando prospettive aperte su basse colline tondeggianti. Arriviamo a Matadi nel tardo pomeriggio dopo quattro ore di viaggio e molti imbottigliamenti, una città di case marroni fissate sulle colline dello stesso colore, scalette scolpite nella terra e tetti di alluminio, poi l’hotel pacchiano ma di lusso e comunque al di sopra delle nostre aspettative, un comodo lettone con due piccoli cuscini supplementari di velluto rosso, grandi tende a fiori colorati ed il bagno rivestito di marmo chiaro. La porta non si chiude e la receptionist non sa usare l’apparecchio Visa né caricare la scheda di apertura della porta, ma otteniamo la preziosa informazione che cercavamo. Qui dove nessuno sa nulla, dopo aver chiesto a diverse persone è il cameriere del ristorante a convincerci nonostante la resistenza di Vanni, di aver sbagliato strada. Attraversare la frontiera con l’Angola qui a Matadi – Nokui significherebbe impantanarci in una sterrata malconcia che solo i locali percorrono perché costretti, il posto giusto invece è la cittadina di Songolo che collega alla frontiera di Kufu ed all’Angola, l’ultima tappa di di questo impegnativo viaggio in Africa centrale. Eppure ci addormentiamo non completamente convinti della strada che ci hanno suggerito di fare, come esserlo dopo tante fregature raccolte?


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