14 Camerun
14 Dicembre 2011
BOLOGNA – DOUALA
Corpi che si muovono freneticamente, collisioni non sempre evitate, lotte per un posto in prima fila al nastro trasportatore, grandi valigie, carrelli introvabili, colori, odori, neonati a tracolla, caos e caldo umido. Infine un signore in caftano azzurro e tessuto bianco arrotolato attorno alla testa ci sottrae ad un paio di ragazzi che non ci mollano, si chiama Ermin e ci stava aspettando, siamo arrivati in Africa. Dopo tre anni avevamo dimenticato Douala, ma non il rosa dei gamberoni di Delphine e per contrasto il bianco ed il nero mescolati sulle poltroncine del bar dell’hotel Ibis dove sorrisi forzatamente allegri color rosso acceso aspettano di essere noleggiati per un bacio ed altro. E’ di nuovo mattina quando un altro signore, alto e nerissimo ci accompagna da Gazelle, si chiama Francois ed anche lui ci stava aspettando per mostrarci il capolavoro del quale va fiero… rimessa a nuovo ed ancora parcheggiata nel cortile dove l’avevamo lasciata troviamo la nostra compagna di viaggi diversa. Accessoriata con fanali supplementari e verricello, il nuovo look non le si addice ma la fa sembrare un fuoristrada serio, un inaspettato colpo di scena che ci consentirà di uscire da eventuali inpantanamenti, di viaggiare al fresco e con colonna sonora, il regista invisibile di tutto ciò è un caro amico, generoso ed onnipotente.
15 Dicembre 2011
DOUALA
Anche Douala si presenta quest’anno diversa, la nostra sosta fu allora tutta concentrata sul reperimento di biglietti aerei e di un parcheggio sicuro per Gazelle, ora invece che abbiamo tutto il tempo da dedicarle, siamo a zonzo lungo le strade di una città che credevamo di conoscere. Gli sportelli chiusi rendono il taxi un luogo sicuro dentro il quale approdare al mercato cittadino, l’unico che abbia un senso visitare, quello verace di ……….. Non si può dire che i centroafricani siano dei gran lavoratori, ma il loro amore per il comodo commercio restituisce alle città quel fermento che altrimenti non avrebbero. Quando come in questo caso le energie si concentrano in un luogo specifico nasce il mercato, inserito nei tentacoli di una cashba o sui marciapiedi dove i prodotti in vendita sono già sciupati, scoloriti dal sole e dalla patina di polvere sollevata dalle auto e dalle moto di chi potendoselo permettere evita la bicicletta passando direttamente alla comodità estrema. I finestrini aperti solo a metà, il taxista ci invita a non scendere, anzi non ci avrebbe accompagnati fin qui se non avessimo accettato la sua irrevocabile condizione…. e come dargli torto vista l’aggressività che uno scatto dietro al finestrino fa esplodere fra quelli che molleggiati sulle ginocchia stanno passeggiando lungo la strada. Se avessero potuto mi avrebbero nella migliore delle ipotesi dato una pedata nel sedere ed avrebbero avuto ragione, anch’io non amo comparire in foto rubate. Sono belli loro, e semplici come i materassi accatastati in alte pile colorate ed i cerchioni dei camion rivisitati come originali barbecue. Organizzato in zone, passiamo dai libri appesi in file verticali ondeggianti come tende a casse di bottiglie, alle foto sbiadite di acconciature lisce, il crespo è considerato molto dozzinale ed il trattamento a suon di spazzola una logorante necessità. Il mercato è attorno a noi, ruspante ed aggressivo si dilata ad occupare la strada con pannocchie arrostite, spiedini di carne, e con i carretti vetrina che inciampano sulle auto ammaccate in costante imbottigliamento…. e quando anche il carretto è troppo impegnativo ecco che la merce viene esposta in equilibrio sulla testa, come le scarpe che un ragazzo indossa come un originale cappello. Qui dove gli schiamazzi si uniscono al frastuono dei clacson, dove il caos è la struttura dello spettacolo manca solo lo spargimento di sangue. Julio sembra voler riscattare la sua città soffermandosi discretamente vicino ai modesti edifici del colonialismo tedesco ormai in rovina ed a quelli più recenti piacevolmente articolati in marcati geometrismi mosaicati in colori che ne esaltano il disegno. Siamo nel quartiere delle banche ora, la parentesi che introduce al porto dove oltre gli immensi capannoni, i piazzali pieni di continer, i tronchi e le montagne di semi di cacao. Poi il piazzale polveroso in riva al mare dove il pesce in vendita è contenuto in freezer aperti e senza energia. Lì di fianco c’è Delphine sempre intenta a cucinare il pesce davanti all’immancabile barbecue che trabocca di pesce. Alta, i capelli raccolti in un tessuto bianco ed un camicione variopinto che la copre per intero l’avevamo lasciata tre anni fa nella stessa posizione ed ora è visibilmente contenta che la squisitezza dei suoi gambas le abbiano riportato due vecchi clienti, bianchi e felici di rivederla. La serata invece sorprende noi con un cocktail di benvenuto nel tiratissimo dehor bordo piscina del Akwa Palace in compagnia dei simpatici italiani che lo hanno organizzato per noi…. una giornata strana quella di oggi nella quale cercando l’Africa abbiamo trovato l’Europa.
16 Dicembre 2011
DOUALA – BODWA
E’ già tardi quando in compagnia di Francklin lasciamo la città … ma un ritardo di almeno un’ora è quello minimo attualmente praticato senza ulteriori sconti dagli abitanti di Douala, per gli imbottigliamenti lungo le sue strade che rappresentano un vero problema e più in generale per il ritardo cinese nella conquista del mercato delle sveglie qui in Africa. Visibilmente deluso dall’essere stato destituito senza troppe cerimonie dal ruolo che aveva sperato di coprire, ha ceduto con sofferenza il volante e si è accomodato sul sedile posteriore di quella che lui deve aver considerata sua per il fatto di averla acessoriata, la nostra Gazelle. Oltre la periferia ci dirigiamo a Nord, verso la falesia e poi a Bamenda dalla quale inizierà il nostro tour sulla Ring Road, il percorso che si sviluppa ad anello fra montagne e vallate che dicono bellissime ma che a noi sembra impossibile possano superare quelle dei fantastici monti Mandara. Con i documenti di Gazelle in ordine ci sentiamo invulnerabili e pronti ad affrontare la tediosa arroganza dei poliziotti corrotti che infestano le strade con la stessa frequenza dei numerosi mercati nei villaggi impolverati di rosso come la terra che li ha generati. Animati dalla frenesia di chi vuole vendere a tutti i costi gli africani si dedicano con entusiasmo alla comoda attività del commercio e la strada è colorata delle tinte accese di frutti, e verdure miscelati al bianco candido dei fiocchi di manioca ed al color melanzana dei semi di cola che si ciucciano come grandi caramelle dal sapore aspro. Confezionati in sacchetti trasparenti li vediamo ondeggiare di fronte ai finestrini, mossi dalle decine di ambulanti spalmati sui nostri vetri che si azzuffano per conquistare un primo posto, fra di loro qualche giovane che deluso non si trattiene dal mollare anche qualche pugno … usanza locale o povertà estrema? Senz’altro un mondo dal quale ci estraniamo come spettatori infastiditi chiudendo ermeticamente finestrini e portiere…. Seduta sul sedile posteriore, declassata a passeggero in seconda fila distolgo lo sguardo dai labbroni che alternano urli a volgari bacetti ed istintivamente mando a quel paese nella speranza che il bigliettino del pedaggio cada sulle mani di Vanni il più in fretta possibile. Ma è qualcos’altro ad attirare la nostra attenzione, simili ad appuntite piroghe mignon gli involucri di foglie di banano contengono la polpa di manioca, alimento principale della dieta africana, scontato per chi vive qui ma ancora un mistero per noi che ad ogni mercato vediamo aumentare la curiosità di saperne di più. E’ così che capiamo ora cosa erano tutti quei fiocchi candidi stesi sui tetti ad asciugare, l’unica cosa bianchissima vista oggi. Il desiderio di essere al mio posto accanto al mio inseparabile compagno di viaggio si affievolisce ad ogni posto di blocco, quando grumi di poliziotti ci fermano per il controllo dei documenti, troppe volte nel tratto relativamente breve percorso finora. Il fucile in mano si accostano con visi così seri da non lasciare dubbi, sono loro a condurre il gioco e con i passaporti in mano aspettano troppo tempo prima di riconsegnare, una banale strategia per costringerci a sganciare il piccolo obolo, l’equivalente di un paio di euro. Infastiditi piuttosto per l’arroganza di questi briganti della strada, come li chiama Franklin, e soprattutto per il tempo che ci fanno perdere inutilmente stringiamo i denti e passiamo oltre…. Il lavoro di Franklin per la messa a punto di Gazelle inizia ben presto a far acqua da tutte le parti ed i freni in avaria ci costringono a proseguire a singhiozzo tra una secchiata e l’altra di acqua gelata sul mozzo rovente mentre nel buio che ora è sceso sembriamo su una ridicola astronave. Con il lampeggiante acceso sopra il tettuccio ed i fanali supplementari che sparano fasci di luce ovunque ci fermiamo nel primo hotel che vediamo, il Venus di Bodva. Lenzuola inaspettatamente pulite e birra nel ristorantino accanto dove la cameriera è gentilissima, gli sguardi dei presenti non proprio rassicuranti e la borsetta finisce sotto il tavolo.
17 Dicembre 2011
BODWA – BAMENDA
Franklin inizia a scontare la pena autoinflittasi fin dall’alba, quando Vanni preoccupato più per l’assenza di Gazelle che del nostro aiutante lo trova nell’unica officina del paese alle prese con gli ingranaggi del freno posteriore …. ma lo scivolone è ormai irrimediabile e quando arriviamo infine a Bamenda, non sapendo come riconquistare Vanni, inizia persino a spolverare il cruscotto ed a lustrare il parabrezza…. ma non so quanto a lungo Vanni resisterà a tutte queste cerimonie! La città è grande e spoglia, ne osserviamo l’agglomerato ampio e modesto dall’alto, appannato dalla foschia e calato nel verde delle colline che ne modellano la forma. Va da se che la giornata è interamente dedicata a quel freno malandato e si conclude con l’ingresso di una sposa nel giardino dell’hotel Ayuda, anni 60 e da ristrutturare. Al centro di una moltitudine di tavoli allestiti con fiocchi e fiori, sulla moquette rossa stesa per l’occasione incede danzando accanto al marito, sexy, scatenata ed incitata dagli ospiti che partecipano allegramente ballando e battendo le mani al ritmo di un brano alla moda di Salif Keita, intanto alcuni fuochi d’artificio salgono dietro al palco d’onore spaventando tutti. Al tripudio della festa si contrappone il ristorante semivuoto nel quale senza nessun imbarazzo l’unica cameriera rimasta ci comunica che la festa di matrimonio ha assorbito tutte le energie della dispensa e non resta quasi nulla da mangiare …. senza indugio iniziamo ridendo la nostra dieta preventiva!
18 Dicembre 2011
BAMENDA
Il compito di Bertrand non è facile come sembra, mostrare i luoghi di interesse di una città che non ne ha è una impresa ardua, ma è la sua città e lui la considera senz’altro bella in ogni suo angolo, soprattutto il corso principale oggi deserto … è domenica anche qui a Bamenda. L’assenza dell’adorabile confusione, di colori, moto, auto e passanti che si muovono contemporaneamente, insomma di tutto ciò che rende belle anche le città senza storia, ci delude come un palcoscenico senza attori. E’ di Vanni l’idea di portare un paio dei palloni che abbiamo in valigia alla missione cattolica in città e come chi per assurdo non conosce le strade dietro casa Bertrand sceglie un sentiero molto accidentato nel quale accade l’ennesimo disastro … la buca più profonda storce il semiasse posteriore della nostra Gazelle che vecchia e stanca è ora da pronto soccorso e non potendo muoverla da qui inizia in loco il lungo travaglio della sua rimessa in sesto…. che pazienza! Dopo aver recuperato qualche pietra ed assi di legno, sfoderato il cric e chiamato con due urli un meccanico che abita sull’altro lato del fiumiciattolo, inizia a colpi di martello la riparazione. Qualche curioso naturalmente è arrivato ed ha aiutato a risolvere il problema che ora tutti sentono come il loro…. non si è mai soli qui in Africa…. ed un gruppo di bambine sta riempiendo taniche di acqua dal rubinetto a pochi metri dal luogo della tragedia. Guardano curiose e con gli occhi a terra aspettano che io rompa il ghiaccio, un bel modo per non pensare dal semiasse, poi le vedo caricare sulla testa le taniche pesantissime ed allontanarsi. Quattro ore e siamo pronti per raggiungere Francois, il boss di Franklin, impegnato nella festa annuale del villaggio di Bali. Vestito in abiti tradizionali a sacco di tessuto nero e grosso con sgargianti applicazioni rosse e gialle è ridicolo come buona parte della moltitudine degli attempati partecipanti che affollano la strada principale muovendosi dal crocevia verso la piazza che si affaccia su una delle tante vallate dell’intorno collinare. I più giovani invece, lontani dalla riproposizione nostalgica di usanze ormai svuotate dei loro contenuti, sparano a salve con i loro lunghi fucili di legno scuro, indossano abiti attillati che evidenziano la bellezza dei loro corpi e parrucche carnevalesche. Sono tutti qui riuniti per la festa che anticipando il natale ed il capodanno li festeggia entrambi nella terza settimana di dicembre. L’atmosfera carnevalesca e festosa fa da contorno ad una ritualità antica perpetuata di generazione in generazione da un gruppo di anziani che non esitano anche oggi ad autocelebrarsi ribadendo la struttura gerarchica del potere culminante nella figura del re. Era lui che fino a pochi decenni fa esercitava il suo potere assoluto sul suo territorio, una sorta di capo clan che emanava leggi e le faceva rispettare attraverso i suoi ministri. Il boss è uno di loro e scompare presto vicino al trono reso inaccessibile dalla sbarra che isola la piazza ora deserta…. a giudicare dal timore che Franklin ha nei confronti del suo boss qualcosa deve essere rimasto di questo tradizionale esercizio del potere…. poverino, quando Francois ha saputo del disastro del semiasse lo ha incenerito con uno sguardo ed ha infierito in modo eccessivo costringendolo ad assumere un’aria contrita da cagnolino bastonato… adesso è chiaro perché usciti dal fango della sterrata si era prodigato nel pulirci le scarpe…. voleva cancellare ogni traccia dell’accaduto? Ceniamo con gli avanzi del party di ieri… i rifornimenti infatti arriveranno solo domani ed anche le cameriere oggi sono stanche, così tanto che l’whisky di Vanni non è mai stato portato al tavolo, la richiesta è arrivata troppo tardi, ce ne siamo accorti quando poco dopo abbiamo visto scappare la cameriera con la borsetta in mano ed un sorriso di scuse sulle labbra …. che ridere!
21 Dicembre 2011
DOUALA
Abbiamo lasciato Bamenda e la Ring Road senza averla vista e con i freni ancora disastrati ci siamo avviati lungo la strada che porta a Sud senza sapere se saremmo arrivati a Douala o se invece avremmo fatto una strage di polli pomodori e persone in un fatale ed involontario salto fuori strada. Indifferenti alle quattro frecce ed al lampeggiante sul tettuccio gli abitanti di Douala hanno messo a dura prova l’abilità di Vanni che con la fronte imperlata di sudore ha proceduto a slalom fra passanti moto ed auto che sembravano voler a tutti i costi essere travolti. Difficilmente si può immaginare il casino che riescono a creare lungo le strade i locali a meno che non si sia già stati qui, e così con l’ansia alle stelle ed i nervi a fior di pelle ho preso in seria considerazione l’ipotesi di mollare Vanni per i disastrosi esordi dei nostri viaggi più recenti, ma ho poi ripiegato con una scenata ed il suggerimento dell’acquisto di un paio di Land Cruiser che non abbiano conquistato il titolo di auto storiche. Sola ed abbandonata al mio destino di viaggiatrice in attesa di poter ripartire in sicurezza, avendo già visto quello che di “ interessante “ la città aveva da offrire, la noia si è infine impossessata delle mie giornate e così rimbalzando da un lettino all’altro attorno alla piscina dell’Ibis, ho con difficoltà trovato consolazione nei gamberoni di Delfine e nella cena in un ristorantino sulla spiaggia resa invisibile dalla staccionata e dal buio della notte. Lo abbiamo raggiunto in taxi attraverso le strade del porto avvolte nell’oscurità, blindati dentro la Toyota Corolla scassata di Julio abbiamo prevenuto gli eventuali assalti da parte dei gruppetti di uomini dei quali si vedevano solo confuse silouettes. Raggiunto il piazzale di terra battuta del Bandol Plage a quest’ora vuoto dei carretti carichi dei pescatori, abbiamo scelto da un secchio cinque grossi astici ed atteso la cottura comodamente seduti ad un tavolino di bambù. La scelta si è presto rivelata vincente, per l’aria fresca e per la musica caraibica che la chitarra e la voce di un cameriere hanno reso bellissime per l’intonazione romantica e malinconica. L’assito di legno traballante, il basso soffitto rivestito con geometrie di bambù, le poche pareti colorate di azzurro, la strana luce diffusa da una lampadina colorata penzolante sopra il nostro tavolo ed infine gli squisiti astici hanno reso questa serata la più bella e la più verace qui in città.
24 Dicembre 2011
YAOUNDE – MINDOUROU
La capitale è già in fermento quando molto presto ci avviamo dal centro verso la periferia, nulla a che vedere con la spumeggiante chiassosa serata di ieri quando la musica, le grida ed il fumo di grigliate avevano raggiunto dalla grande piazza del centro il nostro quarto piano rendendoci spettatori degli scatenati festeggiamenti del Natale. Sono solo le sette del mattino eppure molti hanno già ritrovato l’energia per allestire le rudimentali bancarelle ed i carretti ambulanti o per mettersi al volante di auto, moto e camion che hanno creato lo scompiglio sulla strada nella quale anche noi ci siamo avventurati. Difficile immaginare il caos che hanno generato i locali se non trovandovisi intrappolati, stretti sui quattro lati da auto e camion che come noi vorrebbero sfondare la barriera compatta dei mezzi che ci fronteggiano ad un centinaio di metri di distanza, là in fondo alla massa dei corpi metallici ruggenti. La lotta per la conquista di qualche metro, la paziente attesa di una svolta, laggiù al fronte nel quale qualcuno dovrà pur uscire vincitore… noi o loro? non è semplice quando due strade a doppio senso di marcia diventano per diversi motivi due sensi unici. I cavi di due tralicci crollati penzolano infatti sulle teste di motociclisti incuranti e dei pedoni che si muovono sui marciapiedi fra galline razzolanti, caramelle e frutta mentre alcuni oziosi osservano la sposa che cammina sulla terra rossa cercando di non sporcare il suo abito bianco ancora immacolato. Poco oltre l’autista inesperto di un tir vorrebbe curvare su una stradina troppo stretta ed un vigile inviperito gli sta afferrando il pantalone per tirarlo giù dalla cabina e forse malmenarlo. Poi qualcuno ce la fa e spinto da un necessario spirito di sopravvivenza dribbla attraverso un parcheggio ad asola risolvendo l’irrisolvibile e consentendoci di inserirci finalmente sulla strada che porta a Bertoua dove ci attendono un paio di soste forzate ai posti di blocco della polizia… Che dire, sembrano subodorare la preziosa preda bianca ed il suo carico di banconote da chilometri di distanza ed è impossibile sottrarsi alla loro arrogante inquisizione, alla bramosia di trovare un cavillo al quale attaccarsi. La presenza della cassetta del pronto soccorso, del triangolo e dell’ estintore col quale Vanni sfinito spruzza un po di schiuma sui piedi del comandante che insiste sul suo malfunzionamento. Assurdo se si considera lo stato pietoso delle auto circolanti nelle quali la superficie di nastro adesivo supera di gran lunga quella della carrozzeria. Tra una rottura di scatole e l’altra ci troviamo involontariamente protagonisti di una buona azione squisitamente animalista …. nel nostro caso necessaria per evitare insopportabili sensi di colpa …. un Pangolin penzola sul bordo strada dalla mano di un onnivoro locale, è un formichiere coperto da grandi squame, una specie ora in via di estinzione …. grrr questi africani mangiano proprio di tutto pur di non fare la fatica di allevare animali, accudendoli e sbattendosi per la loro crescita …. il carnefice non capisce perché desideriamo acquistare se non per gustare qualche buon bocconcino arrostito … ma in fondo ha solo voglia di fare affari e seppur basito cede l’animale porgendone la coda ed aiutandoci a caricarlo su Gazelle. All’emergenza Pangolin si succede quella di Vanni che di fronte agli escrementi rilasciati sul retro dall’animale spaventato va su tutte le furie sbraitando fino al suo lancio finale in foresta, nella selva dove speriamo sopravviverà ancora a lungo. Seduto sul sedile posteriore Michel sogna di diventare un bravo giocatore di calcio e fa finta di partecipare alle nostre incazzature scollegato dietro alle cuffie del mio I Pod…. Riemerge solo quando Vanni stressato dalla lunghezza di questo viaggio ad ostacoli e dalla scomoda sterrata rossa sulla quale siamo da almeno quattro ore gli chiede urlando quanti chilometri mancano con esattezza fino all’arrivo al campo di Mindourou. Ora è buio e sui due lati della pista, tra le poche case dei villaggi in primo piano sulla foresta si sono accesi i fuochi ed i visi di persone semplici che vivono come millenni fa mangiando gli animali che cacciano e la frutta e la manioca che trovano. Lo stile di vita più primitivo di chi ci ha preceduti, quelli che gli antropologi definiscono i cacciatori e raccoglitori, in questo caso i pigmei. Il tempo di prendere possesso della nostra camera ed è già la cena di benvenuto in compagnia degli ospitali e piacevoli bianchi di Mindourou.
25/26 Dicembre 2011
MINDOUROU
La foresta è oltre il fiume limaccioso, appena visibile dal belvedere costruito sul punto più esterno del campo. Completamente invisibile invece, oltre il cancello sorvegliato c’è il villaggio dove i locali vivono in povere baracche di legno ed i bambini si muovono vivaci con i loro ventri gonfi ed i sorrisi sulle labbra. Qualche adulto con la bottiglia di birra in mano mi invita ad entrare nelle case dove vivono quei bambini, i loro figli, desiderando pateticamente scaricare su di me la responsabilità della loro povertà, come se ciò non dipendesse dalla loro scarsa intraprendenza e dalla radicata avversione al lavoro. Quelli che non stanno ciondolando sulle panche di fronte ai baretti che vendono birra lavorano nell’azienda locale, alle macchine che trasformano gli alberi in assi e listelli o che marchiano con triangoli e cerchi colorati le sezioni dei tronchi abbattuti e tagliati. Due realtà opposte, i bianchi ed i neri, i lavoratori e gli oziosi, i ricchi ed i poveri che trovano un punto di comunione, il luogo di pacifica convivenza nella fabbrica del legno. Chassy è il cuoco del club, introvabile quando se ne ha bisogno ma zelante quando infine dopo averlo individuato gli si chiede di preparare una colazione o un’insalata. Le sue emicranie, la troppa birra e la sorella all’ospedale della parrocchia ne fanno un bersaglio mobile che solo i custodi fermi al cancello riescono a rintracciare e qualche volta a convincere di spostarsi dal villaggio al club. E’ con lui che mi avvio lungo lo stradello che scende ripido oltre lo steccato del campo fino al fiume abbastanza largo da divaricare la foresta che lo comprime sulle sponde. La spiaggetta è affollata. Donne armate di sapone lavano sbattendo più volte i vestiti sull’acqua, forse quelli dei bambini che giocano nudi sulla riva e poi tuffano i loro corpi perfetti e vellutati dentro la superficie marroncina. Una bambina alta poche decine di centimetri piange per la gomitata che sua madre le ha assestato sulla testa e poco dopo il barcaiolo poliomielitico che arriva a bordo della sua piroga scavata nel legno di un albero. Le gambe sono quasi invisibili sotto il busto, nascoste sotto l’assicella sulla quale è seduto, rattrappite sul fondo. Scivoliamo nel silenzio delle acque immobili, accompagnati dalla leggera brezza generata dal nostro movimento, lentamente all’ombra degli alberi inclinati verso l’acqua, vorremmo non fermarci per ore, continuando a lanciare cenni di saluto ai pescatori che seduti sulle loro piroghe posano per una foto mentre trattengono le lenze con le dita dei piedi o lanciano reti leggere sulla superficie che si increspa. Il ritorno controcorrente è scandito da incontri che vogliono sembrare casuali, si è sparsa la voce del mio passaggio ed alcuni non resistono alla tentazione di agganciarmi per una foto in bianca e nero o per la sponsorizzazione di un’agenzia di turismo… l’attività più improbabile qui a Mindourou. Poi è il turno del piroghiere che ripulito e seduto sulla sua rudimentale sedia a rotelle arriva al cancello del campo chiedendomi un compenso esorbitante al quale cedo volentieri.
27 Dicembre 2011
MINDOUROU – KIKA
Mohamed non dice una parola mentre sfreccia veloce sulla sterrata rossa che porta a Kika. Verso la promessa di gorilla e pigmei nell’estremo Sud-Est del paese, là dove il Cameroun sfiora la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Centroafricana, sette ore per quattrocento chilometri di polvere rossa e veloci camion navetta che sembrano travolgerci ogni volta con il loro carico di grossi tronchi. Poveri villaggi di capanne terrose, bambini che giocano, piccoli mercati, foglie rosse di polvere, qualche barriera da superare ed infine Kika che ci appare bella ed arroccata sulla sua collina, un’oasi di chalet bianchi circondati dall’ impenetrabile foresta equatoriale e di prati verdi illuminati dalla luce bassa del tramonto. L’accoglienza è tutta francese, come lo champagne che ci viene servito e Bruno, il direttore del centro che ha fatto del club un ristorante tre forchette Micheline…. insomma siamo in un paradiso a 360°!
28 Dicembre 2011
KIKA
Non servono i pigmei né gli animali selvaggi della foresta per decidere di rimanere a lungo nel nostro chalet a Kika, ma siamo qui per loro ed è con Aminu, il nostro riservato autista in abito lungo, che muoviamo i primi passi in quella che è ancora per noi una massa verde ed impenetrabile. I rami che strisciano sui fianchi del pick-up, ci inoltriamo impavidi tra gli alberi altissimi di una fitta selva, lungo il tunnel verde che si arena là dove i pigmei hanno smesso di mantenerlo aperto a colpi di machete. Il passepartout della foresta, la lama curva e luccicante dei colpi assestati con forza, l’indispensabile strumento disponibile anche in versione mignon per i bambini senza pistole di plastica né archi o frecce e per le bambine che non giocano con bamboline bionde e bellissime. Protagonisti dei nostri sogni di bambini e dei copioni mozzafiato della cinematografia Holliwoodiana il Tarzan e la Jane nei quali ci siamo identificati per anni ci appaiono ora sotto forma di esserini pazzerelli e simpatici, piccoli e sporchi, i folletti della foresta. Ne incontriamo una coppia che cammina mollemente verso casa con un cane in braccio, vestiti di stracci, la fronte imperlata di sudore e gli occhi lucidi di chi ha alzato il gomito si avvicinano e gesticolando ci travolgono con la loro aggressiva allegria, gli occhi grandi e sporgenti ed il seno semicoperto che ciondola parallelo al ventre scarnito, i pochi denti gialli contenuti tra labbra sempre sorridenti, sono piccoli come bambini e vivacissimi. Salgono nel cassone posteriore e ridacchiano nel vederci urlare di felicità mentre con le mani strette al maniglione voliamo lungo i due solchi di terra, gli occhi al cielo azzurro incorniciato di foglie, carichi dell’energia della natura che ora è dentro di noi, i capelli al vento ci sentiamo liberi e felici come due ragazzini che giocano a fare Indiana Jones … e che si abbracciano eccitati sotto i rami più bassi. Arriviamo sulla strada appena in tempo per assistere ad un litigio furioso fra i nostri due ospiti ed un pigmeo incazzato che brandendo ubriaco il suo machete minaccia di colpire se non gli verrà restituito il suo cane …. naturalmente i due non mollano e per evitare spargimenti di sangue andiamo oltre sperando di non essere inseguiti verso le capanne a forma di igloo, quelle costruite nei rari momenti di sobrietà flettendo a cupola i rami e ricoprendoli di foglie secche. E’ tutto ciò che rimane di quelli che hanno vissuto nella foresta come nella loro casa, quelli nudi ed agili che si arrampicavano sugli alti alberi per raccogliere il miele, che bevevano acqua piovana raccolta in coni di foglie di banano, quelli che venivano cacciati e mangiati come animali dai famelici Bantù. Sono ai lati delle strade ora … lontani dalle illusorie promesse di quei missionari che volevano aiutarli e che poi sono andati via senza lasciare nulla … sono i barboni della foresta.
29 Dicembre 2011
PARCO DJEMBE’
Consigliatissimo dai simpatici francesi del campo ci avviamo di buonora carichi di aspettative lungo la strada che porta al Parco Djembé, come sempre sterrata e rossa. Con due taniche di benzina nel cassone, il frigorifero da viaggio pieno di bevande e di cibo, facendoci largo a colpi di machete sui rami che bloccano la strada ci inoltriamo nel grande parco del WWF. La luce del sole ancora bassa, avanziamo con qualche sussulto circondati dal concentrato di foglie e legno nel quale cercando gorilla troviamo invece una elefantessa di foresta ed il suo bebè che attraversano la strada …. un avvistamento che molti avrebbero considerato fortunato dato che la foresta rende questi elefanti soprattutto invisibili …. ma siamo esigenti e considerando questo solo un assaggino di ciò che verrà proseguiamo con l’entusiasmo di chi è stato sempre molto fortunato… in altri parchi africani. Accompagnati da scimmie che saltano da un ramo all’altro in perfetti equilibrismi e dai suoni che rendono la foresta ancora più misteriosa arriviamo al campo di accoglienza dopo più di tre ore di comodo viaggio da Kika. L’immenso Congo è ora ad un centinaio di metri da noi, oltre il fiume limaccioso dove piroghe di legno sono legate ad un paletto di legno e qualche tegame già lavato è in equilibrio su una rudimentale panca affondata nella melma cedevole della riva. Accolti da un gruppetto assortito di giovani bantù e di pigmei, solo ora in pacifica convivenza ma fino a qualche decennio fa rispettivamente cacciatori e prede, siamo subito informati dell’inconveniente …. il responsabile del parco è andato in ferie portando con sé le chiavi dei luoghi strategici, anche quelle dei bungalow a palafitta con zanzariera che si affaccia ad angolo sul fiume dove avrei tanto voluto dormire. Ma non è finita qui, il diffidente direttore ci ha resa impossibile anche la balade sul fiume ed inutilizzabili le due taniche di benzina che Bruno ci aveva consigliato per questo di portare … i ragazzi però ci propongono subito qualche alternativa, anche per non perdere gli incassi che l’arrivo di due turisti garantiscono loro …. ed a giudicare dal bel sorriso col quale afferrano le provviste che abbiamo portato in omaggio il boss deve aver chiuso a chiave anche la dispensa. Per incoraggiarci a rimanere preparano in fretta la nostra camera dentro uno spartano basso casolare, il pavimento di cemento, una lampadina penzolante dal soffitto ed una piccola finestra…. l’estrema pulizia di lenzuola ed asciugamani sono una bella sorpresa dopo aver visto le loro magliette….. non resta che incamminarci lungo il sentiero che si inoltra tra gli alberi altissimi, dando inizio alla nostra passeggiata esplorativa. Vanni fa il suo ingresso in foresta con gli inseparabili mocassini, un alibi che gli ha sempre consentito di evitare la fatica di lunghe passeggiate in situazioni non comode, questa volta però vince la curiosità e l’improvviso inaspettato desiderio di avventura. E’ così che armato di machete segue il pigmeo che apre il passaggio mentre dietro di noi un bantu in uniforme verde dall’espressione incazzata impugna un fucile primitivo, la canna piegata sul calcio di legno smangiucchiato dalle termiti e sul palmo della mano due cartucce forse usate…. è qui per difenderci dall’assalto di animali pericolosi…. ma quali animali? E’ evidente anche a noi che quando si cammina in quattro sulle foglie secche di animali selvaggi se ne vedono pochi … e che quello che i due ci propongono è un evidente show. Ma gli stop improvvisi ed i brevi ingressi nel fitto della vegetazione ci divertono e ci calano nel ruolo che anche noi ora vogliamo recitare, quello degli esploratori bianchi preceduti e seguiti da uomini neri che in questo caso non trasportano bauli sulle loro spalle… fra radici, semi giganteschi, frutti caduti a terra, qualche scimmia che non resiste curiosa dal rendersi visibile e le cacche degli animali che non vedremo. Rapiti da questo paese delle meraviglie proseguiamo tra i tronchi altissimi e le loro basi massicce, le liane e le foglie sempre diverse, le chiome abbondanti ed i rami secchi, i muschi ed il caos di questo infinito repertorio naturale tante volte immaginato che oggi si è complicato di suoni e profumi.
30 Dicembre 2011
KIKA
La sorpresa è sulla pista verso Kika, racchiusa nella sagoma in movimento che Aminu scorge lontana, quando con il motore spento aspettiamo che succeda qualcosa ma mai avremmo immaginato così tanto. E’ l’animale che quasi nessuno ha visto, il più difficile da individuare, l’unico felino, la pantera! ( panthera Pardus ovvero leopardo). Si muove verso di noi lentamente, gli occhi puntati sull’auto immobile, i nostri odori racchiusi dentro la scatola di metallo rendono la situazione perfetta. Un passo dopo l’altro, con eleganza e fascino, le scapole alternativamente verso l’alto a scandire i suoi passi, il manto maculato del leopardo avanza come su una passerella, seducente e bellissima, snella e fiera. Si ferma, ci osserva, si sposta sull’altro lato della pista, si ferma, annusa qualcosa, mostra un fianco, mostra l’altro fianco, gli occhi gialli sempre puntati su di noi come su una possibile preda, procede lentamente e si ferma ancora, curiosa, indecisa. La osserviamo affascinati con il respiro trattenuto per l’emozione finché non scompare di nuovo, a pochi metri da noi, fra le foglie della selva. Una fortuna sfacciata come sottolineano poco dopo i ragazzi del campo mentre osservano la sequenza di scatti dell’animale al primo posto fra quelli in via d’estinzione. E’ il gorilla che cerchiamo invece ora mentre inseguiamo il pigmeo che si sposta veloce nella foresta. La savana di Bolò è ad un paio di chilometri dalla pista, un’ora di puro piacere e qualche ostacolo da superare in impacciati equilibrismi. Sui rami e sul fango nero e cedevole raccolto in piccole pozze, là dove qualche elefante di passaggio ha lasciato impronte grandi e profonde, sugli alti tronchi di alberi caduti che rallentano il passaggio, nelle radici incrostate di muschi che emergono seminascoste dal fogliame e tra i folti cespugli di rami sottili che come frustini coperti di spine quasi invisibili trattengono le nostre t-shirt, quelli che nessuno ha ancora spezzato e che il pigmeo evita con estrema agilità. E’ il luogo che lui conosce meglio di chiunque altro, quello nel quale ha mosso i suoi primi passi, è la sua casa, il suo elemento ed il machete è l’arma, lo strumento indispensabile per muoversi dentro la vegetazione che si rigenera ad una velocità impressionante. Gli insetti ronzano felici della presenza dei nostri corpi mentre qualche veloce fruscio ci fa rabbrividire, il Mamba è infatti il serpente più velenoso di quest’area geografica e non amando i rettili, tanto meno quelli neri mi concentro sul corso d’acqua di fronte a noi nel quale il nostro sentiero si è arenato. Largo circa quattro metri ma non molto profondo è pur sempre da superare e l’idea di affondare i piedi nella melma scivolosa del fondo ha su di noi un certo impatto. Scegliamo così l’alternativa di una performance di equilibrismo ed imitando l’agilissima guida che ci precede cerchiamo di non cadere dal tronco troppo sottile e contorto che dalla sponda raggiunge il centro del corso d’acqua e di seguito nemmeno dalle due canne di bambù parallele che collegano dal centro l’altra riva. Cedendo infine sotto il peso dei nostri corpi il precario e rudimentale ponticello ci costringe ad affondare le scarpe e le caviglie dentro l’acqua limacciosa e fredda del fiume, tanto valeva guadare! La radura si apre luminosa e verde, coperta di zolle d’erba e delle orme nere e profonde degli elefanti che speriamo di avvistare. Gruppi di palme la delimitano in lontananza ed ancora oltre, a perdita d’occhio, la foresta si stende all’orizzonte in infinite sfumature verdi sulle quali risaltano i rari ciuffi colorati di foglie rosse. Dall’alto della torre di legno instabile e già malandata anche per le spinte degli elefanti che gironzolano abitualmente sotto di lei, solo un’aquila si distingue nera e bianca fieramente ritta sul ramo senza foglie di un albero vicino. Poi un temporale improvviso e la pioggia torrenziale che piega le foglie e allaga la savana, così fitta da rendere ora invisibili quegli alberi lontani. La pioggia assordante ha reso silenziosa la foresta e gli uccelli che prima volteggiavano numerosi in onde disordinate sono scomparsi… la natura sfoggia ora tutta la sua forza in tuoni e fulmini producendo la variazione spettrale dello stesso scenario. I vestiti umidi ed i calzini stesi a sgocciolare sulla precaria balaustra di legno, ci spostiamo lungo il ballatoio riparato della torre cercando di evitare gli scrosci che si spostano a seconda della direzione del vento, stiamo aspettiamo il momento giusto per tornare sui nostri passi, al fiume ora gonfio di pioggia che attraversiamo senza indugio rinunciando al ponticello sempre più precario, immersi nell’acqua fino all’inguine, inzuppati fino alle ossa ci sentiamo due avventurieri… il nostro obiettivo è raggiunto anche senza gorilla o elefanti. Continuiamo la marcia sul sentiero ora immerso nell’oscurità, le torce sulle nostre fronti ed ancora molti ostacoli che ora superiamo senza esitazioni… un pomeriggio indimenticabile.
31 Dicembre 2011
KIKA
La festa dei pigmei si svolge di fronte alla capanna del capo tribù dove bambini, uomini ubriachi e donne scatenate sono disposti in circolo e danzano al ritmo primordiale di tamburi improvvisati. Una moltitudine di bambini riempie quasi completamente lo sfondo circolare degli spettatori che osservano con i grandi occhi spalancati ed i vestiti laceri i virtuosismi di alcune donne che a noi sembrano anziane, ma chi può dire quanti anni abbiano? I visi contratti in canti urlati, i parei arricciati a cresta sui sederi che sembrano imitare le piume ondeggianti di un uccello, si contendono il palcoscenico terroso ora vuoto, ognuna desiderosa di essere la protagonista del mio obiettivo che non sa più dove fermarsi. Incalzato dal ritmo ipnotico dei tamburi un uomo si esibisce ora al centro di quella che è diventata una sorta di arena urlante. Vestito con un gonnellino nero e cavigliere a sonagli, la pelle luccicante di sudore, si muove a scatti come in trance, gli occhi enormi spalancati, il viso contratto in una smorfia ed i muscoli tesi in posizioni alla John Travolta, si avvicina troppo con l’arroganza di chi vuole sfidare la donna bianca e con lei la macchina fotografica. Ciò che colpisce dei bambini invece è la loro tristezza che svanisce solo quando raccolti in gruppi seguono la direzione dello scatto. Fotografarli singolarmente è impossibile perché vedere le immagini sul display è la cosa più divertente che possa accadere loro in questa festa che non li fa partecipare …. poi le dita indicano le figure che riconoscono, gli amici, i fratelli ma non loro stessi i cui visi ancora sconosciuti sono avvolti nel mistero per chi come loro non li ha mai visti riflessi su uno specchio. Intanto una bambina sta sgranocchiando il suo sandalino di plastica rosa, una madre strizza il seno gonfio dentro la bocca del neonato dal viso imbambolato ed un’altra mi avvicina il figlio appeso alla schiena, infagottato dentro una fascia di tessuto legata sul seno, i due visi incollati sullo sfondo di fantasie colorate. Il pathos è in continuo aumento, incalzato dai tamburi e dalle voci che vogliono emergere dal frastuono per accompagnare chi si sta dimenando al centro dello spiazzo. Ora tutti battono le mani ed anche i bambini partecipano ballicchiando mentre Vanni che da un’ora sta registrando il sonoro mi si avvicina urlando quanto gli altri …. gli occhi, fotografa gli occhi! La cena sfiziosa a base di squisitezze francesi è il lieto fine di questo originalissimo capodanno!
02 Gennaio 2012
KIKA
La squisita ospitalità dei francesi del campo si esprime questo pomeriggio con la balade sul grande fiume Ngoko le cui acque color nocciola scorrono lente costeggiando la nostra collina. Nella piroga che lo attraversa le magliette colorate dei tre passeggeri risaltano sullo sfondo sbiadito dalla foschia mentre sulle due rive i pescatori aspettano che le loro lenze tese si muovano finalmente con un bel pesce moribondo all’amo… non c’è nient’altro. Procediamo al centro, il rumore del motore come unica nota stonata nel silenzio totale. la Repubblica Popolare del Congo è a pochi metri da noi, sull’altra riva, una immensa massa verde con qualche fiore rosso, identica a quella esplorata per giorni, la stessa con due nomi diversi, non più vergine ma ancora nera, accessibile solo per una breve visita ai villaggi vicini. Senza strade ed isolatissima la si raggiunge dalla capitale Brazzaville solo attraverso un fuori strada lungo più di mille chilometri e poi via fiume da Quesso, è certo che la vedremo solo da qui. E’ una strana sensazione quella di avere di fronte agli occhi la nazione che raggiungeremo fra un mese, dopo il Cameroun ed il Gabon, dopo foto, visi, situazioni e molti chilometri da percorrere, una illusione che ci fa sorridere, come quella che accompagnò i tedeschi nella realizzazione di questo ponte mai terminato. E che dire dell’originale look dell’alto signore che vestito con un vecchio impermeabile inglese color panna sta pescando tenendo in mano una sottile canna di bambù? mi saluta con un cenno tenero e dolce ed un bel sorriso, così insolito qui in Cameroun. Ci sono anche due grandi zattere costruite inchiodando strati di assi appena sfornate dalla segheria, saranno ulteriormente caricate con legno di scarto e scenderanno sfruttando la corrente del lungo fiume fino a Brazzaville dove tutto sarà venduto, zattera compresa, ma per il momento un paio di signore lo stanno usando come pontile per un comodo bucato in piena corrente. Al villaggio di casette di legno c’è una moschea, alcune moto decorate con fiori di plastica sul manubrio, piccoli bar con due sedie sulla strada polverosa, un magazzino dove si macina la manioca ed una parrucchiera che sta confezionando trecce sulla testa di una cliente nel piccolo vano aperto sulla strada. Un bambino spunta dal rottame di un’auto dimenticata fra due case, due capre sono stese accanto ad un barile vuoto usato come braciere, un generatore rompe il silenzio di questo tardo pomeriggio senza elettricità…. solo dopo il tramonto il villaggio risplenderà di luce artificiale. Il piccolo negozio del giovane barbiere ha il sapore di una vecchia discoteca di paese completa di musica a tutto volume che rimbomba sulle pareti coperte di poster a tema. Con grandi grandi cuffie verdi alle orecchie e pantaloni lucidi, neri ed attillati il ragazzo armato di rasoio si dimena come un cubista attorno a Vanni che pietrificato sulla poltroncina teme il peggio…. che spatacco!
03 Gennaio 2012
KIKA – MINDOUROU – YAOUNDE
L’auto corre veloce sulla pista rossa immersa nella selva, quattrocento chilometri in otto ore danno la misura della prodezza dell’autista e della velocità con la quale sfumano i sospirati gorilla ed i pigmei alle nostre spalle, il Congo e la collina con lo chalet di foresta. Sette giorni di isolamento sono stati tanti per noi ed ora abbiamo voglia di asfalto e di Gazelle appena uscita in gran forma dalle amorevoli cure di un meccanico portoghese di Mindourou. Ancora centoquaranta chilometri e tre ore di sterrata, di uomini coperti di polvere aggrappati sul retro di minibus in viaggi al limite della sopravvivenza, foglie di banano, capanne, bambini ed eccoci immersi nel silenzioso asfalto della strada maestra a discutere con i soliti poliziotti corrotti ed a comprare Pangolin da salvare, i camion rovesciati in improbabili fuori strada non lasciano dubbi sul fatto che la prova del palloncino serva a qualcosa. Poi per un caso fortunato evitiamo gli imbottigliamenti della capitale ed atterriamo al nostro confortevole hotel. Domani saremo a Kribi, sull’oceano Atlantico che speriamo lontana dalla Rimini che la guida cita, come se la similitudine potesse allettare chi è arrivato fin qui.
05 Gennaio 2012
YAOUNDE – KRIBI
Lontana anni luce dalla Rimini che avevamo temuto di trovare Kribi è una cittadina come tante altre, senza nulla che la distingua se non i nuovissimi spartitraffico e le belle spiagge che l’hanno resa la più famosa località balneare del Cameroun. Oltre il ponte ed il porticciolo nel quale galleggiano un paio di motoscafi, separate dalla strada da gruppi di palme e rocce scure, le spiaggette di sabbia chiara ci invitano ad avanzare lungo la strada costiera che prosegue sterrata nella selva promettendo situazioni più selvagge e lontane dal caotico lungomare. Oltre lo spesso strato di vegetazione che introduce alla spiaggia, nascoste dal cancello di legno semiaperto le casette circolari dell’hotel Ilomba sono immerse nella bassa vegetazione di aiuole fiorite dove un gallo artritico di vecchiaia, adattatosi al ruolo di decrepita mascotte passeggia sugli stretti percorsi come il re di un pollaio senza galline. La porta aperta sul letto di legno scuro, la vecchia maschera alla parete, due ibiscus rossi sui cuscini, la zanzariera, ed il soffitto a graticcio rendono la nostra camera bellissima e questo non hotel il miglior luogo dove rimanere piacevolmente qualche giorno di fronte all’oceano, sulla spiaggia che inizia a pochi passi dal muro bianco ingentilito dalla fioritura che sale azzurra e bianca. L’impeccabile bar sulla sabbia diventa presto l’epicentro dal quale partono le lunghe passeggiate lungo le anse che seguono e precedono, falci bianche separate da gruppi di rocce, le nostre orme si disegnano accanto alle prue appuntite di grandi piroghe di legno, vicine ai pescatori che riparano le reti e ad una vecchia macchina da cucire Violet, diventata per l’occasione un affascinante blocco di ruggine usato come originalissima ancora. Corpi perfetti e vellutati, bambini e qualche toy boy si delineano sullo sfondo di lontane piattaforme di estrazione difese da navi da guerra. Nella direzione opposta invece, sullo sfondo della vegetazione rigogliosa, ci sono le rare baracche di legno dove i locali bevono birra e mangiano pesci appena pescati. Le sfioriamo indifferenti, ancora lontani dal sentirci nell’Africa che abbiamo amato, autoghettizzati in situazioni non nostre, come quelle degli amici che dopo anni di difficile convivenza sono sfiniti da questi furfanti che rubano non appena ne hanno l’opportunità. E che dire della nostra esperienza diretta con Albert, un beach boy che oltre ad averci scucito 5000 CFA ci ha rubato anche i dadi dei quali doveva fare qualche copia… passi per il denaro, ma come faremo ora a giocare a backgammon? E’ anche per questo che raggiungendo la vicinissima cascata, interessante solo per la caduta delle sue acque dolci nell’acqua salata dell’Atlantico, abbiamo evitato il mercatino per turisti ed i quadri tutti uguali di fronte ai quali ragazzi col pennello in mano facevano finta di esserne gli autori. Lontani dall’integrarci stiamo costruendo barriere che non avevamo desiderato, sempre più vicini ai molti bianchi insofferenti sfiniti dal continuo tormento di questa Africa… mi sto chiedendo perché siamo ancora qui, e dove è finito lo spirito di avventura che ci ha sempre accompagnato nei nostri viaggi. Fra due giorni sarà il Gabon e forse l’apertura.